Il canneto di Eridu

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#31. Corte.

Campionato europeo di calcio, c’è di mezzo una partita dell’Italia. E partono gli inni.

Da che mondo e mondo gli inni nazionali sono uno dei momenti più emozionanti degli eventi sportivi. Il doppio inno tedesco e italiano che accompagnava le vittorie di Schumacher è stato il leit-motiv di un’epoca. Gli occhi lucidi dei campioni olimpici quando parte la musica che ti ricorda che una nazione esulta con te, e che una vita di sacrifici e allenamenti ti ha appena ripagato di tutti gli sforzi che ci hai buttato.

E il bello di sentire la maestosità dell’inno tedesco che porta la Germania sopra tutto, la nobiltà di quello inglese che parla di Dio e Regina, la popolarità della marsigliese che invoca il popolo contro la tirannia. E devo dire che è bello anche l’inno spagnolo. Sono dei precisini della fungia, ma hanno un gran bell’inno. C’è poi da dire che il crollo del comunismo ha cancellato uno dei miei inni preferiti, quello della vecchia DDR, la Germania est. E ha modificato il testo (che peraltro mi è oscuro) del mio inno preferito in assoluto, quello dell’URSS – ora della Russia. E poi c’è l’inno statunitense, che conosciamo tutti ed è bello. E molto americano.

E le pagine oscure, quando andava di moda da parte di cialtroni di ogni luogo del mondo fischiare gli inni altrui. Una merdata passata di moda, grazie agli dei di ogni ordine e grado. Era ora.
Purtroppo, però, è stata sostituita da un’altra moda, percepita peraltro come particolarmente edificante e patriottica. Sto parlando dei calciatori che cantano a squarciagola l’inno nazionale. Stonandolo. Storpiandolo. Stuprandolo. E danneggiando in primo luogo il mio udito, e in secondo luogo il mio godimento degli inni a inizio partita, parte integrante del più generale godimento che mi spinge a guardare una partita di calcio.

Campionato europeo di calcio, dicevamo. C’è di mezzo una partita dell’Italia, dicevamo. E c’è che stavolta sì, li vedo carichi, determinati, li vedo cantare l’inno con la veemenza di chi vuole entrare in campo e spaccare tutto. E per un attimo dimentico le loro voci ignobili, e l’ignobile idea che lo spettatore desideri ascoltarle e non preferisca vedere le immagini dei giocatori con la voce di tutto lo stadio che canta, molto epica e maestosa. Me ne dimentico.
Ma a un certo punto, eccolo lì. Già l’inno di Mameli non ha un testo degno della nostra letteratura millenaria, e vabbhè. Già la voce e l’andare a tempo sono indecorosi. Ecco la faccia di Buffon, che dal goal di Muntari in poi mi ispira la stessa simpatia di un centopiedi che mi cammina sulla spalla. Ma poi lo vedo, lo sento. Scandisce ben bene. «Stringiamoci a corte». «Stringiamoci a corte». Vaffanculo, a corte.

A corte un cazzo.

Anche se l’etimo è comune a “corte”, la pedantuccia retorica mameliana de “Il Canto degli italiani” parla di coorte. “Stringiam’ci a coorte”. Coorte. Un’unità militare. Mettiamoci gli uni accanto agli altri, armati, uniti, per liberare/difendere il nostro paese che ci chiama. Non è “stringiamoci a corte”, del tipo «uè ci sta un casino di gente a ‘sta festa, venite stiamo più stretti che magari riusciamo a pigliarci ‘na tartina anche noi».

E sì che non è così difficile. Prendi una “o”, la togli da “stringiamoci” e la metti in mezzo a “corte”, facendo “coorte”. Ecco fatto. Semplice semplice. Che cazzo ci vuole? CHECCAZZOCIVUOLE? Prendi tredici fottutiliardi di soldi all’anno, anche se il tempo è denaro puoi comunque permetterti di sprecare 4 minuti di merda per cercare il testo su internet e leggertelo, prima di giocare alla playstation?

Ora, vi chiederete giustamente: «Come mai ti viene in mente adesso, che gli europei sono passati da mo, archiviati nel cassetto delle sconfitte umilianti, e invece ci aspettano le Olimpiadi, dove in genere nessuno canta e ti potrai godere l’inno in santa pace? Donde ti proviene tutto sto livore?».
Il livore non proviene da nessuna parte, aleggia nell’aria. E tutto questo vasto cappello introduttivo mi sembrava l’ideale per un post che non parlerà assolutamente di calcio, di inni nazionali, di musica, di nazioni.

Infatti qualche giorno fa il buon TalaMax mi ha richiesto un post a tematica arturiana. E io che in quella tematica sguazzo come un porco nel fango non volevo certo tirarmi indietro. Èpperòvero che non sapevo di quale argomento di preciso parlare, e ho pensato di dedicare un pezzo ai cavalieri meno noti di Artù, a tutti quei personaggi, cioè, che pur comparendo in tutti i testi arturiani hanno raramente l’occasione di passare dal ruolo di scenografia al centro della scena. I gregari, i porta-acqua. La corte. E lì m’è venuto in mente dell’inno.

Cominciamo col dire che non parleremo di Artù e Ginevra, né di Lancillotto, Galvano, Tristano e Isotta. Di questo blocco di personaggi avremo modo di discutere prestissimo, in un altro post che sto già maturando. E nemmeno del gruppo del Graal: di Parsifal, Galaad e Bohors non è un gran divertimento discutere, in fondo. E neppure degli antagonisti, che i cattivi in genere durano una storia e fanno una brutta fine, e pochi sono davvero interessanti, a parte Meleagant il Fellone. Di cui parleremo, con Lancillotto e compagnia, oh sì. E qui non parleremo nemmeno del numerosissimo e folto sottobosco di grandi cavalieri ed eroi invincibili che sono in genere protagonisti di un solo romanzo, personaggi esaltati e spesso inventati dall’autore (e non frutto di tradizioni antecedenti) che in genere si confrontano – e sconfiggono, o più spesso pareggiano – con i più importanti cavalieri della tradizione (i succitati Lancillotto, Galvano, Tristano) utilizzati come paragone per misurare il valore del giovane protagonista. Del tipo “è inutile che ti dica quanto è fico Giantomassino, ti basti sapere che financo Lancillotto quando si è misurato con lui ha riconosciuto il suo valore e ha chiuso lo scontro con un onorevole pareggio”.

A questo punto, stabilito chi no, vediamo chi sì.

Keu il Siniscalco. Personaggio fisso della corte, compare quanto Artù, Ginevra e Galvano, e come loro fa parte della famiglia reale. Per sapere chi è occorre ricordarsi dell’origine di Artù, che appena nato viene consegnato a Merlino e da questi fatto allevare da un fedele vassallo, Antor, che fa affidare il figlio a una balia perché Artù abbia il latte della moglie (era credenza che con il latte si trasmettessero qualità, un po’ come i midichlorian per la forza). Quando Artù arriva alla famosa impresa della Spada nella Roccia e diviene Re, Antor racconta ad Artù che è figlio adottivo e che per allevare lui ha fatto allattare il suo vero figlio da una balia, e forse anche per questo è un cazzone avariato. Quindi Artù dovrebbe tenere il figlio di Antor, Keu, con sé, e perdonarlo se non è degno di corte. Artù che è personcina riconoscente e a modo si mette quindi in casa, come siniscalco, il fratello adottivo, un ciarlatano che fa il buzzurro con tutti (non gli è propria la cortesia e fa il grande con i pezzenti, e insulta i nuovi arrivati) ma non vince mai uno scontro (da che io mi ricordi, finisce sempre col culo in terra). Ma che se non altro è spesso buona spalla comica per stemperare i momenti di tensione, è sempre fedele al re e in fondo a volte è anche commovente per come ce la mette tutta.

Sagremor l’Impetuoso. Citato alternativamente come del casato del Re d’Ungheria, o dell’Imperatore di Costantinopoli, è un nobile giovane cavaliere quando arriva a Camelot attirato dalle voci delle imprese di Re Artù, e si pone al suo servizio. Viene subito battezzato “il morto di fame” da Keu perché, a causa di una malattia, se si mette a combattere o fare grandi sforzi senza aver mangiato, sviene. Da questo appellativo deriva grande onta a Keu, e Sagremor viene ribattezzato “l’Impetuoso” per l’ardore in battaglia. Prende parte a tutte le avventure di gruppo dei cavalieri.

Lucano il Coppiere. Personaggio sempre presente, fratello di Sir Bedivere. È uno dei due sopravvissuti – con Giflet – allo scontro finale tra le schiere di Artù e quelle di Mordred a Camlann (Salesberies, Salisbury, a seconda della compilazione). Alla fine della battaglia incontra Artù mortalmente ferito, e questi, felice finalmente di incontrare un suo cavaliere in vita, lo abbraccia, ma la stretta di Artù è fatale a Lucano. È davvero uno degli episodi più singolari della fase finale della vicenda, e probabilmente si è perso il significato di qualche allegoria nascosta nella vicenda.

Giflet figlio di Do. Cavaliere sempre presente della corte, è l’altro sopravvissuto allo “scontro finale”. Dopo la morte di Lucano, Artù gli ordina di gettare la sua spada nel lago. Dopo un paio di tentativi in cui ritorna fingendo di averlo fatto, e un paio di volte in cui Artù lo sgama, obbedisce al re e getta la spada, che viene afferrata al volo da un braccio emerso dal lago. Poi vede arrivare una barca, con a bordo Morgana, che porta via il re. I tempi mitici sono finiti, Giflet entra in monastero e morirà di lì a breve.
Secondo alcuni studiosi sarebbe da identificare con Jaufré figlio di Dovon, protagonista di quello che è probabilmente l’unico romanzo arturiano in lingua occitanica.

Sir Bedivere. Conestabile. Per Sir Thomas Malory è lui il sopravvissuto alla battaglia finale che riporta la spada di Artù alla Dama del Lago.

Dodinel il Selvaggio. Inizialmente un uomo abitante in una regione lontana, nei boschi, che vive una sorta di era antica-mitica, come accade a Perceval, ma anche ad esempio a Enkidu, diviene poi un cavaliere della Tavola Rotonda, presente stabilmente nelle avventure di gruppo come quella della Dolorosa Guardia.

A questi personaggi, che sono la corte in senso stretto, potremmo poi aggiungere i fratelli di Galvano (che vanno a completare quello che potremmo definire il clan familiare di Artù, essendo imparentati, visto che la loro madre è sorella di Artù, e visto che sono quelli che gli saranno fedeli nella fase finale della vicenda). Il migliore è di certo Gareth/Gueheriet, uno dei migliori cavalieri della Tavola Rotonda e involontariamente quello che darà il via al suo definitivo e tragico disfacimento. Poi abbiamo Gaheris/Guerrehet, il classico anonimo, e infine Agravain, colui che darà inizio, volontariamete, alla sciagura della guerra tra i cavalieri.

E poi i loro cugini, Ivano il Grande e il fratellastro Ivano il Bastardo.
Ivano il Grande, figlio di Urien, secondo a corte al solo Galvano per valore, e anche per linea di successione al trono (che cito anche se non sarebbe questo il suo posto, avendo alcune opere a lui dedicate tra i quali di certo non da ultimo viene il bellissimo romanzo “Ivano o il cavaliere del leone” di Chrétien de Troyes), cavaliere valentissimo e cortese, che vorrebbe passare più tempo con l’amica Laudine ma viene da Galvano spesso trascinato di avventura in avventura. Al primo Ivano, tra l’altro, è facile attribuire collegamente con un personaggio storico, Owein, figlio di Urien (anch’egli personaggio storico) presente nei racconti gallesi del Mabinogion. A uno dei due Ivano, alternativamente a seconda della fonte, è attribuito il compito di farmi venire il magone ogni volta che leggo la vicenda della sua morte per mano di Galvano al ritorno dalla cerca del Graal.

All’opposto del clan di Artù c’è il clan dei francesi, composto da Lancillotto e dai membri del suo lignaggio, provenienti dalla Bretagna. Tra questi l’impavido e tumultuoso Lionello dal cuore senza freni, un simpatico e valoroso cazzone da prima mischia, ed Estor delle Paludi / Ettore di Marès, fratellastro di Lancillotto.

A chi desiderasse provare il sapore della letteratura arturiana per la prima volta, non posso che consigliare “I romanzi della Tavola Rotonda”. Si tratta di un ottimo lavoro curato dal medievalista e scrittore francese Jacques Boulenger. Una riedizione del corposo ciclo vulgato in prosa francese del Duecento, sfrondandolo di rami secchi e contraddizioni, riproponendolo “tradotto” in una lingua più moderna ancorché con un certo sapore arcaico. In italiano, pubblicato negli Oscar Mondadori, è preceduto da un saggio ad opera di Gabriella Agrati e Maria Letizia Maggini che permette di capire quanto elaborato e stratificato è il sostrato mitico e letterario delle storie arturiane.

Nello scrivere questo post mi sono avvalso dell’aiuto del “Dizionario del ciclo di Re Artù” di Carlos Alvar, indispensabile carta nautica del mare arturiano.

Nel post ho citato i seguenti testi:
Thomas Malory, “Storia di Re Artù e dei suoi cavalieri”, 2 voll., in Oscar Mondadori
Chrétien de Troyes, “Ivano o il cavaliere del leone”, in “Romanzi cortesi”, 5 voll., in Oscar Mondadori
“Jaufre”, a cura di C. Lee, in Biblioteca Medievale Carocci.

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