Il canneto di Eridu

Un blog per tutti e per nessuno

«Cronache della Colonia» – 9 (fine)

V.    Epilogo

Malika cammina tra i bambini seduti per terra, sono almeno una quindicina, hanno più o meno tutti la stessa età. La donna ha ormai molti capelli bianchi nella sua chioma rossa raccolta a cipolla. Recita un poema che parla dei primi anni della colonia, del coraggio di chi sopravvisse a un lungo viaggio nello spazio, proveniendo da un mondo lontano. Uomini e donne che affrontarono il viaggio, l’atterraggio, le malattie, le creature selvatiche. Che seguendo la profezia della madre del Popolo costruirono le mura che oggi difendono la colonia, e disboscarono e bonificarono i campi e iniziarono a coltivare le sementi portate dalla terra, e costruirono il grande villaggio. I bambini ascoltano rapiti. Qualcuno prende appunti. A matita, su fogli realizzati con le squame di indaco.

Jaima è una donna anziana, una donna che ha sofferto molto. Ama restare molte ore su una collina poco lontana dalla colonia, nei pressi dei ghiacci. Guarda le stelle. Ora vi riconosce nuove costellazioni, nuovi spiriti. Si sente sola, e pensa ai tempi lontani in cui aveva creduto di poter impedire che gli uomini si ammazzassero tra loro. Lo aveva creduto sulla Terra, ma non era stato possibile. Allora era fuggita tra le stelle con la sua compagna per sfuggire alla Guerra. Ma nemmeno su questo nuovo mondo aveva potuto impedire alla gente di ammazzarsi. E aveva perso così la sua compagna. Non c’è un minuto di questa vita in cui non si senta sola, ma va avanti. E quando la solitudine diventa insopportabile, va sulla collina, guarda il cielo e si stringe nella coperta nella quale si avvolgevano insieme. Non piange più. Non ci riesce più.

Paytah è ormai un uomo adulto. Gestisce una sorta di fattoria, con dei maiali dal vivace color arancione, e degli alberi da frutto. Pesche, ciliegie, albicocche, uva. Mentre guarda il tramonto gli vanno incontro tre bambini vocianti. 
Il più grande grida: 
— Papà, papà! Vieni, c’è pronto da mangiare!
Paytah annuisce. Li segue, entra in casa e dà un bacio alla moglie Adalinde.

Lilith è seduta per terra, appoggiata a un castagno. Una donna matura, ma veste sempre come da ragazza, con pantaloni mimetici e anfibi slacciati, una maglietta militare, e al collo l’acchiappasogni di luce di Anaba. Ha in mano un quaderno, sta disegnando la bozza di un fumetto, con un volto in primo piano: è Anaba. Le scende una lacrima.
Si avvicina una ragazzina:
— Tallulah! Il sindaco J.J. vuole vederti. Dice che devono organizzare la festa e hanno bisogno di te, per sapere come vuoi organizzare il rituale.
— Va bene, digli che arrivo subito. E porta i miei saluti a tua madre Diana, dille che spero di vederla, stasera.

Nella foresta, solitario, un uomo è ormai l’ombra di se stesso. Non ricorda più il suo nome, i suoi pensieri sono ormai mischiati con quelli delle piante e delle ombre. E ha fame.

Il racconto “Cronache della Colonia” è ispirato alle vicende che si sono sviluppate durante una sessione del gioco di narrazione “Follow”, avente come giocatori, oltre a me, anche Greta Bellagamba, Daniele Di Rubbo, Igor Foglia e Mauro Samarati.

«Cronache della Colonia» – 8

Lilith non perse tempo. Era sempre stata una tipa solitaria, quindi non poteva dire di avere molti amici nella colonia, tuttavia aveva legato con un ragazzo inuit, Kavik, uno dei pochi a non avere timore a spingersi nelle prime propaggini dei ghiacci della Notte. Inoltre, essendo una delle poche ragazze a ritagliarsi del tempo al poligono, aveva conosciuto due cacciatori di origine québécoise, Pierre e Marc, ed era moderatamente convinta di piacere parecchio al primo. Riuscì a convincerli a partecipare alla caccia, un po’ per il bene della colonia, un po’ perché, diamine, era pur sempre una caccia epocale, la prima su un altro pianeta! Marc rubò un mezzo ai soldati anche grazie alla complicità di Ransie, una giovane recluta con la quale aveva una mezza storia e che decise di seguirli a bordo di una motoslitta. 

Di fronte alla stupefacente rapidità con cui Lilith aveva messo in piedi una squadra, Jaima non poté fare a meno di considerare che ancora una volta Anaba era riuscita a vedere oltre le semplici apparenze, e che quella non era una povera ragazza confusa da proteggere, per la compagna, ma un’autentica risorsa che, nelle opportune condizioni e sotto la giusta pressione, avrebbe potuto sbocciare e diventare un punto di riferimento della società. Ritrovata fiducia nella lucidità di Anaba, Jaima prese coraggio e decise di partecipare alla missione. Non era capace di sparare, né era un granché come esploratrice, ma era sicura di essere in grado di sapere come tenere unito un gruppo nei momenti di difficoltà. Anche Malika si unì a loro: era indispensabile la presenza di una delle principali accusatrici di Anaba, come testimone.

Mentre la missione partiva in quella ricerca disperata, alla colonia la situazione iniziò a precipitare. Diana, in virtù del suo grado, si presentò con alcuni soldati davanti alla tenda di Anaba, fece irruzione e la arrestò.
— Lasciatemi! Come vi permettete? Non potete arrestarmi, non ne avete il diritto! Non ho fatto nulla! — urlava la donna mentre idue soldati la trascinavano di peso fuori dalla tenda.
— Cosa le state facendo? Vous ne pouvez pas l’arrêter in questo modo davanti a tutti, senza prove! Ce n’est pas juste! — urlò Adalinde.
— Come puoi parlare così — la apostrofò Diana — dopo che ha tramato per uccidere il tuo maestro?
— Ma cosa stai dicendo! — rispose la giovane — io c’ero, j’ai vu le lianes de la plante carnivore chiudersi intorno a lui e trascinarlo via. Non era di certo Anaba. Je crois di riconoscere la differenza…
— Allontanati — le intimò Diana — o arresteremo anche te per intralcio alla giustizia. Ci sono stati due omicidi, da questo momento l’esercito prende il comando e proclama la legge marziale! Per cui ho tutto il diritto di tenere Anaba in custodia e di processarla, come di processare te se insisti a opporti alla giustizia.
Adalinde, intimorita, fece un passo indietro, ma notando che Mellin e Plasmon, due giovani del Popolo, correvano a spintonare i soldati, riprese coraggio.
— Non potete proclamare la legge marziale! — urlò — Non siamo sulla Terra e nessuno vi ha dato il potere di farlo! C’est un abus de pouvoir! La gente della colonia non lo accetterà mai!
Paytah, giunto di corsa in quel momento, urlò ai soldati: — Liberatela! Anaba è la madre di tutta la colonia, non solo del Popolo! Non è stata lei, ma una creatura della Notte. Mia sorella è partita a caccia per provarlo… tutti sanno che stimava il maggiore Smith che l’ha salvata, e non amava Anaba, se persino lei la ritiene innocente, dopo tutto quello che è successo, dovete crederle!
L’accorata difesa del ragazzo non sembrò ottenere grossi risultati: del resto, non poteva di certo essere il parere di un dodicenne quello che avrebbe condotto a più miti consigli due fazioni pronte a venire alle mani.
Anaba, intanto, ancora scossa dalle visioni, tremante, si guardava intorno con paura. Era l’ombra della donna fiera e carismatica che era stata fino a poche ore prima. Vide la gente intorno a lei iniziare a strattonarsi. Vide lo spettro di quella guerra di popoli che tanto aveva temuto. Appena la violenza esplose urlò a Paytah:
— Vattene! Salvati! Hai parlato per me, ora sei in pericolo: prenderanno anche te!
Il ragazzino esitò, poi corse via. Trovò un quad, ci saltò sopra e corse verso i ghiacci, sperando di trovare la sorella.

***

Paytah agì quasi senza pensare e si tuffò col quad nel nero della Notte. La neve alzata dalle grosse gomme del mezzo andava in tutte le direzioni, creando nuvole di ghiaccio alle sue spalle. Mentre la paura del buio senza fine e dell’ignoto che nascondeva iniziavano a mordergli il cuore, il ragazzino ricordò che il figlio di un soldato gli aveva parlato dei visori notturni a rilevazione termina. Frugò in un paio di contenitori a scomparsa e con un po’ di fortuna riuscì a trovarne uno. Lo indossò e riuscì a individuare quelle che apparivano chiaramente come tracce di un mezzo cingolato e di una piccola motoslitta: iniziò a seguirle. Finalmente, in lontananza, vide delle sagome calde che sparavano a qualcosa che non riusciva a individuare. Qualunque cosa fosse, però, doveva essere veloce. Le cinque figure armate continuavano a muoversi e a cambiare la direzione del fuoco. Per quanto sparassero, non sembravano riuscivare a colpirla e i traccianti dei colpi si perdevano in lontananza.
Seguendo il movimento e la direzione del fuoco, Paytah vide che la cosa si stava muovendo rapidamente, aggirando il gruppo e… maledizione… ora stava puntando decisamente verso di lui, perché era nella sua direzione che stavano sparando.
— Idioti! Che fate… non sparate! — urlò.

Fu un attimo. Una frazione di secondo e qualcosa urtò violentemente il quad, ribaltandolo. Paytah venne sbalzato ad alcuni metri di distanza. Cercò subito di riguadagnare una posizione coperta, provando ad acquattarsi dietro una roccia affiorante. Si guardò intorno e, ad un tratto, lo vide. Una creatura nera, dalla pelle lucida come il ghiaccio. Non riusciva a capire quante zampe avesse. Nemmeno quante teste, a dire la verità. Vedeva solo punte, come lame, ovunque. Sentiva chiaramente che aveva una gran fame. E quando i suoi occhi incontrarono quelli che probabilmente erano gli organi di senso della creatura, provò un terrore folle. Lo stava puntando, era lui ciò con cui la bestia voleva saziare la sua fame.
La creatura si mosse a una velocità irreale: nel tempo di un respiro di Paytah, torreggiava sopra di lui. Paytah si accorse solo di un unico, precisissimo colpo di fucile a pressione molecolare, e quella che era ormai chiaro fosse la testa, si staccò nettamente dal corpo, volando nella aria e finendo impiantata nella neve, mentre il corpo cadde pesantemente a terra, con un tonfo.

Lilith arrivò accanto a Paytah e lo tirò in piedi.
— Cosa accidenti ci fai qui! Hai rischiato di farti ammazzare!
— Lo sapevo! — urlò il ragazzino, ridendo e piangendo allo stesso tempo —  Lo sapevo che dopo tutto non potevi essere del tutto incapace!
Ridendo, Lilith spinse il fratello, facendolo finire gambe all’aria nella neve.
— Si può sapere perché ci hai seguiti? — chiese poi.
— Alla colonia Diana è impazzita, con un gruppo di militari ha arrestato Anaba. Il Popolo si è rivoltato, insieme ad altri civili. C’è una mezza guerra…
— Andiamo, presto! — urlò Jaima, mentre già Pierre, Marc e Kavik legavano la creatura al mezzo cingolato.

In breve tempo arrivarono alla colonia. Una buona parte delle tende era distrutta o in fiamme. Diverse persone erano a terra, altre erano impegnate in una colluttazione. Gli occhi di Lilith corsero disperatamente alla ricerca di Anaba, mentre camminava impugnando la testa della creatura in mezzo a quello sfacelo. 
— Dobbiamo trovare Diana — disse Jaima — Dobbiamo fermare questa follia!
— Probabilmente sarà all’astronave, andiamo — rispose Ransie, la recluta.
Lilith continuava a girare in mezzo ai tumulti, quasi ignorata da tutti, in un’atmosfera irreale, come se non fosse davvero stata lì. A un tratto vide, in mezzo al fumo, Diana con la pistola puntata verso un corpo a terra.
— No, no… — iniziò a mormorare la ragazza, correndo in quella direzione.
— Nooooo! — urlò, vedendo che la figura a terra era Anaba. 
Diana si voltò verso di lei e puntò l’arma nella sua direzione:
— Fermati! Lilith, fermati immediatamente! Ho dovuto farlo, era una minaccia!
Lilith la ignorò, e si buttò a terra sulla donna, lasciando la testa della creatura nella neve.
Anaba giaceva con un foro di proiettile in mezzo al petto, sangue ovunque. Lilith cercò di tamponare la ferita, ma era troppo tardi.
— Anaba, no, ti prego, Anaba… ti prego… — iniziò a dire affannata, cercando in tutti i modi di fare qualcosa. Piangendo, arresa alla propria impotenza, la abbracciò — Ti prego! Resisti, resta qui, Anaba!
— Non ce la faccio, bambina mia — le rispose con una voce flebile, quasi lontana — ascoltami…
— Ti porto subito dal dottor Thomas, ti salverà — disse in mezzo alle lacrime la ragazza, cercando di alzare la donna.
— No, Tallulah, ascoltami, ti prego…
Lilith fissò gli occhi pieni di lacrime in quelli di Anaba, che cercò di radunare le ultime forze per dirle:
— Sei tu la mia erede. Sei la nuova guida.
— No, Anaba, tu sei la Ha’Oba, ti guariremo! Io sono solo una ragazzina scema!
— Il mio tempo è finito. Ho vissuto a lungo. Non è più il mio tempo.
— Io non sono come te, non posso essere come te! Devi resistere, hanno tutti bisogno di te!
— Hanno bisogno di te, adesso. Tu non sei come me, sei molto meglio. Farai un bellissimo lavoro. E se avrai bisogno di me, finalmente ci sarà uno spirito da contattare col rituale. Jaima… stalle vicina. Ne avrà bisogno… dille che la amo.
Poi chiuse gli occhi, e non disse più una parola.
Lilith singhiozzò forte abbracciando la donna, continuando a gridare.
— Non lasciarmi, Anaba! Non posso perdere un’altra madre! Non posso!
Diana era lì, in piedi, immobile, che guardava ora Anaba e Lilith, ora l’orrenda testa nera della creatura, che iniziava a sciogliersi e a svanire nella luce.

Arrivò anche Jaima, di corsa. Il suo dolore fu straziante.
Svenne.
Lilith cercò di reggerla, ma la sua corporatura minuta non l’aiutava.
Poco lontano gli occhi di Malika erano pieni di lacrime:
— Tutto inutile… è stato tutto inutile… — mormorava.

«Cronache della Colonia» – 7

Il cadavere del maggiore Smith era steso sul tavolo di metallo del laboratorio di Diana. La donna era sconvolta: il maggiore Smith era stato per lei un punto di riferimento, oltre che un superiore. Aveva studiato il cadavere per ore, ed era sfinita.
Jaima entrò nel modulo dopo aver bussato brevemente.
— Ci sono novità? — chiese.
— Non molte — rispose Diana cercando di trattenere la commozione — il dottor Thomas, insieme al nostro esperto, ha valutato la forma e il tipo di ferite. Le sto confrontando da ore con un database compreso nell’archivio militare. Se avessi gli strumenti e i dati che avevamo sulla Terra potrei dire di certo qualcosa di più, ma alla fine non possiamo far altro che un banale confronto. Sono tagli inflitti con un’arma da punta, come un pugnale. Il sistema mi segnala la contabilità anche con artigli di grandi felini, ma qui non ce ne sono. Abbiamo intravisto una creatura nel profondo dei ghiacci, quando eravamo alla ricerca di Lilith, ma non si è comportata in modo aggressivo, e non abbiamo idee precise sulla sua morfologia. Finora nessuna creatura di alcun genere si è mai avvicinata alla colonia. E nemmeno all’Anello, a dirla tutta, se escludiamo il poco chiaro caso di Shin. 
— Anaba — rispose Jaima — è molto preoccupata dalle creature di questo mondo. Ha avuto delle visioni…
— Scommetto che quella strega è contenta della sua morte — disse Diana a denti stretti, con voce incattivita, prima di cercare di cambiare tono e dire — Scusami, scusami, non dovrei… è la tensione.
— Capisco… — disse Jaima, irrigidita per l’ostilità di Diana — Potrei dirti che Anaba non è mai contenta per la morte di nessuno, ma non servirebbe a far svanire i tuoi dubbi, né la tua rabbia. Ti prego solo di mantenere la massima lucidità. Il maggiore era una delle figure più importanti e autorevoli della colonia, e ne rimangono poche. Evitiamo di scatenare una guerra tra comunità. Siamo pochi, cerchiamo di rimanere uniti, scopriamo cosa è successo e agiamo di conseguenza.
Diana aveva sempre visto Jaima come una donnetta graziosa e innocua, del tutto secondaria, il volto umano del Popolo alle spalle del volto ufficiale di Anaba. Ora la stupiva l’autorevolezza con cui stava prendendo in mano la situazione. Tuttavia era sicura che in ogni caso la donna nel momento decisivo avrebbe parteggiato per la compagna, anche di fronte a prove schiaccianti.
Diana e Jaima decisero di ascoltare insieme i pochi testimoni, per cercare di far luce sulla vicenda. Il primo fu J.J., il giovane giocatore di hockey.
Entrò nella stanza, gli occhi semichiusi per la forte luce, i capelli scompigliati, in faccia si leggeva un’epocale emicrania da sbronza.
— Volevate vedermi. Comprensibile, c’è un gran bel vedere qui. Ma facciamo alla svelta. — disse il ragazzo.
Jaima lo incalzò:
— Non è il momento di scherzare. La situazione è grave e sia i soldati che il Popolo vorrebbero sapere da te come è andata ieri sera. Pare che tu sia l’ultimo che ha visto il maggiore vivo.
— Abbassa la voce. Non ho mai sentito un suono più stridulo. Se esiste un cane su questo pianeta tra poco sarà qui. Comunque, vivo era vivo, di certo. Mi ha preso a calci in culo. 
— Quindi avevi un motivo per ucciderlo.
— Se dovessi uccidere tutti quelli con cui ho scambiato calci in culo sarei il più grande serial killer della storia. Comunque no, non era niente di così grave. E a dirla tutta aveva ragione lui: gli stavo pisciando in macchina.
— C’era qualcun altro? Qualcuno che vi ha visti, o che hai visto tu?
— C’era la rossa. Quella che va in giro per la colonia recitanto poesie. Dai, la matta. 
— Malika?
— Malika. Me la farei. Ma non sono convinto. Mah. Forse no. Ci penso quando mi è passata.
— Non ci interessa chi ti faresti… — lo incalzò Jaima — Continua. Dov’era Malika?
— Era nella biblioteca col maggiore, è uscita appena dopo di lui. Magari se l’è fatta lui.
— C’era qualcun altro?
— Sì. C’era la vecchia sciamana. Un po’ più lontana. Giurerei che ci abbia guardato male. Si vede che non è abituata a vedere un uccello come il mio. Eh, ci sta.
Jaima era decisamente stufa di sostenere il dialogo con quel cretino. Ma la presenza di Anaba sul luogo del delitto era confermata. Non poteva credere che davvero c’entrasse qualcosa. Ne era certa. Ma una paura cominciava a farsi strada dentro di lei.

***

La situazione era pronta per esplodere. Le fazioni erano ai ferri corti e contrasti sopiti di fronte alle necessità comuni stavano covando come fuoco sotto la cenere, pronti a divampare. Chi avevano più informazioni e più influenza nella comunità continuava a incontrarsi e a discutere, cercando di disinnescare una bomba pronta a esplodere che avrebbe potuto significare la fine della colonia.

Malika aveva deciso di incontrare Jaima. Si era resa conto che Anaba non era lucida: poteva significare che fosse colpevole, ma anche che non fosse in grado di architettare alcun piano. L’unica speranza di capirci qualcosa era parlare con Jaima: la compagna della Ha’Oba era sicuramente dalla sua parte, ma era anche sufficientemente saggia e compassionevole da rendersi conto che, arrivati a questo punto, non si poteva rischiare di mettere a repentaglio il futuro della colonia.
— Perdona la mia franchezza, arriverò subito al punto senza convenevoli: cosa sai dei piani di Anaba per salvaguardare il Popolo? Era in contrasto col maggiore? — chiese la poetessa — Se sai qualcosa devi parlare! 
— Non c’è nulla che io ti passa dire che tu non sappia già o che in ogni caso rifiuteresti di accettare, ma non so granché di contrasti tra Anaba e il maggiore, e non esiste alcun complotto etnico. Sgombriamo il campo da queste assurdità altrimenti finirà davvero nel sangue. Non è il momento di alimentare il sospetto. — rispose Jaima — Dobbiamo trattare questo omicidio nel modo più neutrale e asettico possibile. Ragioniamo solo sui fatti: dobbiamo ricostruirli passo dopo passo. Ripartiamo dagli ultimi eventi. Eravate presenti in quattro: il maggiore, tu, Anaba e J.J.
— Sì, su questo hai ragione — rispose la poetessa, colpita dal pragmatismo e dal sangue freddo di quella donna, un lato di lei che non conosceva — Tuttavia non possiamo separare del tutto i due argomenti. Quando ho visto che durante la festa il maggiore si ritirava nel Centro Culturale ho deciso di seguirlo. Abbiamo parlato: una delle sue preoccupazioni era che qualcuno volesse fare in modo che nella colonia ci fossero solo discendenti dei nativi americani, infatti l’ultima persona che non aveva nemmeno una goccia di sangue nativo, tra i sopravvissuti all’atterraggio e alla sindrome, era Shin. Prima c’era stato il tentativo di fargli sposare Lilith, poi la sua morte. Ora i rimasti sono solo quelli che avevano almeno una piccola percentuale di geni nativi. Il maggiore riteneva che qualcuno della vostra tribù avesse questa ossessione. 
— Questa è una pazzia! Sai bene che Anaba voleva portare una persona estranea nella famiglia e questo avrebbe portato unità nella colonia. Perché avrebbe dovuto volerlo uccidere: in ogni caso se anche non avesse sposato Tallulah, se era l’ultimo senza sangue nativo prima o poi avrebbe sposato qualcuno che ne aveva una parte, o alla fine dei suoi giorni sarebbe morto. Che differenza avrebbe fatto? Se anche fosse esistito un piano del genere non avrebbe avuto alcun senso.
— Il maggiore temeva che i prossimi sarebbero stati quelli con la percentuale più bassa, o che Anaba avrebbe cercato di combinare i matrimoni in modo da massimizzare la componente nativa. 
— Un’altra cosa senza senso: se voleva massimizzare la componente nativa perché avrebbe dovuto far sposare Tallulah, che è al 100% del Popolo, con un uomo che non ne ha una goccia di sangue?
Malika annaspò nel tentare di rispondere. Le tesi del maggiore sembravano in qualche modo tutte sensate, se prese singolarmente, ma non riuscivano a costruire un tutto organico. Le sembrava di leggere quelle vecchie storie sui complottismi paranoidi.
— O il maggiore si è inventato tutto… — provò a sostenere — oppure è tutto vero ma è una coincidenza. Ma se non è stato uno di voi a fare quelle cose allora chi è stato? Anaba dice che sono state creature d’ombra nei ghiacci, ma chi le ha mai viste, in fondo? I soldati dicono che hanno individuato qualcosa di grosso in lontananza, ma sembrava stare alla larga e non aveva alcuna intenzione di avvicinarsi. E la creatura descritta da Adalinde e Paytah, che dovrebbe aver catturato Shin, era sostanzialmente una pianta carnivora. Non un serial killer dotato di pugnali.
Lilith comparve in quel momento, praticamente dal nulla. Malika non poté fare a meno di notare che arrivava e spariva silenziosa come uno degli spiriti del suo Popolo. La ragazza disse: 
— Io le ho viste… credevo fossero solo un sogno, ma le ho viste. Quando ero persa nei ghiacci a un certo punto ho percepito che c’era una strana bestia, e mi sono infilata in un crepaccio per sfuggirle. Ha cercato in tutti i modi di prendermi, riusciva a toccarmi. Poi devo essere svenuta, e mi sono risvegliata in infermeria.
Immediatamente Malika ricordò lo strano artiglio trovato incastrato nel kevlar del giubbetto di Lilith, e corse a prenderlo nella sua tenda.
— Questo era incastrato nel tuo giubbetto — disse ansante quando tornò.
— Quadra con le comparazioni di Diana. Perché non ce l’hai mostrato prima? — le disse Jaima, agitata — Questo prova che Anaba non è pazza! 
— Non mi ricordavo — rispose Malika, sulla difensiva — Non pensavo nemmeno fosse un artiglio, per quel che ne sapevo poteva essere anche una strana pietra. E comunque non prova nulla, se non che le visioni possono avee un fondo di verità. Non scagionano Anaba!
— Anaba? — chiese Lilith — Che storia è questa?
— Malika — le disse Jaima — dice che il sergente temeva che Anaba volesse uccidere tutte le persone della colonia senza sangue nativo.
— Che sciocchezza. — rispose Lilith, seccamente — E se anche fosse, come potrebbe una donna anziana come lei aver ucciso un uomo grande e nel pieno delle sue forze come il maggiore, riempiendolo di ferite?
— Non resta che trovare la creatura — disse Malika — Non credevo che esistesse veramente, ma ora l’unica possibilità è trovarla, per scagionare Anaba ed evitare che scoppi una guerra tra gli abitanti della colonia. I militari sono sul piede di guerra, Diana è furente. Temo che da un momento all’altro possano fare una pazzia.
— Veloci. Abbiamo una spedizione da organizzare — disse Jaima.
Lilith annuì, stringendo il suo fucile a pressione molecolare.

«Cronache della Colonia» – 6

Jaima si rigirò nel letto. Aveva freddo, cercò di farsi più vicina ad Anaba. Ma non la sentì. Allungò una mano. Cercandola. Ma ancora non la trovò. Si alzò guardandosi intorno, nella penombra del loro alloggio.— Anaba… — chiamò, sottovoce.
Si alzò, mettendosi la coperta sulle spalle, e uscì. Una fredda brezza spirava dalla Notte.
La colonia dopo la festa era decisamente da risistemare. Il maggiore Smith non avrebbe gradito quel disordine. 
— Anaba! — chiamò di nuovo, alzando un poco la voce, ma cercando comunque di non svegliare tutta la comunità.
D’istinto si portò verso la collina dove si era svolta la festa e vide da lontano il fumo che si alzava dal falò, ormai spento. 
— Anaba?! 
Niente. Un principio di angoscia. 
“Stai tranquilla”, si disse. 
“Non può essere lontana. Magari è andata a cercare Lilith. Sai quanto ci tiene a quella ragazza. Si è presa il compito di farle da mamma, dopo la morte di Shabannah. Sì, sicuramente è così. Adesso… adesso torni alla Colonia e la trovi a parlare con lei, di sicuro. Ma sbaglia tattica. Dovrebbe lasciarla andare un po’ di più, per non perderla del tutto. Starle addosso non paga. Sì, sì, glielo devi dire.”
Poi udì qualcosa. Girò intorno alla collina, scendendo dalla parte opposta a quella da cui era salita, percorrendo un sentiero esposto che dava direttamente sui ghiacci. E la vide.
Anaba era rannicchiata per terra che ondeggiava, gli occhi sgranati fissi nella distanza della Notte. 
Si avvicinò e la coprì.
— Amore — disse dolcemente — che succede? Andiamo a casa, dai. Hai preso freddo… da quanto tempo sei qui?
Ma la donna non le rispose. Continuava a fissare il buio sui ghiacci, in lontananza, in stato di shock. Mormorava parole incomprensibili, sottovoce.
— Cosa succede, amore? — disse Jaima con la voce che iniziava a tremare.
— Anaba non fare così. Non fare così… Ti prego…
All’improvviso Anaba, con gli occhi sbarrati, la prese per un braccio e disse:
— Ho avuto delle visioni orribili. Ho visto il ghiaccio, e il buio sopra il ghiaccio che si solidificava. Ho visto delle ombre che si animavano. L’Essiac ha risvegliato la nostra percezione degli spiriti, ma anche gli spiriti di questo mondo si sono accorti di noi. Non siamo più al sicuro, qui.
Jaima tirò un sospiro di sollievo: almeno era cosciente, anche se sembrava delirare. Ma Anaba era una donna di grandissima saggezza, e raramente si sbagliava, soprattutto quando parlava di spiriti e di rituali. 
— Non è che il rituale abbia solo amplificato un po’ troppo le tue paure? — provò a dire alla compagna.
— Devi ascoltarmi. Ci sono spiriti che non conosciamo, per loro siamo invasori. Forse prede. Ci porteranno alla rovina, dobbiamo andarcene. Dobbiamo parlare col maggiore Smith e dirglielo. Se non scappiamo andremo incontro alla rovina!
Jaima cercò delicatamente di far alzare Anaba. Si guardò intorno, sperando di vedere qualcuno che potesse aiutarla, ma non c’era nessuno. Pian piano, tuttavia, riuscì a far alzare la compagna e a condurla verso la colonia.

***

Un grido. Poi molte. Un vociare diffuso nella colonia, un sacco di persone che si avvicinavano, tutte insieme. Qualcuno gridò di fare spazio, poi due militari spararono dei colpi in aria per far allontanare la gente. Diana arrivò di corsa e constatò, accanto al dottor Thomas, che il maggiore Smith era morto. Svariati tagli sul corpo, netti, profondi. Soprattutto uno sul collo, probabilmente era quello che aveva causato la morte.

Erano rimasti in centoventotto.

***

III. Processo

Solo poche ore prima Malika era in stata nella stessa stanza a parlare di cose inquietanti con il maggiore Smith, e ora si trovava di nuovo lì, in compagnia della persona che poteva essere la mandante del suo omicidio, se non l’assassina. 
Per quanto tutto sembrasse assurdo, la scansione temporale era troppo coerente per potersi permettere di ignorarla: prima il tentativo di forzare un matrimonio tra una ragazza del Popolo e l’unico uomo che non aveva sangue nativo; poi il fallimento del piano; in seguito la morte dell’uomo – del tipo “se non possiamo inglobarlo nel Popolo, deve morire” – e infine il maggiore Smith che le rivelava i suoi sospetti e poco dopo era morto. 
E il fil rouge che univa tutti questi eventi era Anaba, la matriarca del Popolo e, con lei, l’antica leggenda dei nativi che le aveva letto il maggiore. Anaba dietro il tentativo di matrimonio forzato, Anaba accusata dal maggiore Smith, Anaba presente vicino alla tenda quando le accuse venivano pronunciate.
Malika aveva chiesto a Kaima di poter parlare con Anaba, prima che il caso esplodesse e intervenissero i militari. Gli occhi della poetessa scrutavano la Ha’Oba. Tremante, confusa, non le sembrava più né la grande madre protettrice della sua gente, né la pericolosa reazionaria legata a ignobili tradizioni superate. Solo una donna poco lucida e lontana dai suoi anni migliori. Le trecce ormai disfatte dopo la notte all’addiaccio nei pressi della Notte, la facevano sembrare una creatura ben misera, anziché una donna di potere.
La poetessa si rese conto di provare un sottile piacere a poter interrogare in una posizione di superiorità quella donna che pochi giorni prima l’aveva trattata con sufficienza, quando aveva protestato per il matrimonio combinato di Lilith. Ma subito si vergognò di quei pensieri e iniziò a fare le sue domande nel modo più neutro possibile:
— Ti ho chiesto di venire qui perché ci sono cose molto importanti che vorrei sapere, prima che gli eventi precipitino.
— Gli eventi precipiteranno presto, qui — rispose la Ha’Oba — e potremmo morire se non ce ne andiamo subito! Siamo già in pochi, quanti membri possiamo ancora perdere prima di essere praticamente estinti?
— Anaba, ascoltami, ti prego. Il maggiore era convinto, e me l’ha confessato poche ore prima di morire, che qualcuno stesse operando una sorta di selezione per fare in modo che solo chi aveva almeno una parte di sangue nativo americano potesse far parte della colonia, e sospettava di te.
— Il maggiore Smith era un pazzo se pensava una cosa del genere. Il nostro sangue si è sparso in tutto il popolo invasore, ma avere una goccia di sangue del popolo non rende una persona parte del Popolo. Non ha senso. E se rimanesse solo il Popolo, una trentina di persone, anche il Popolo sarebbe estinto per sempre. Ti sembra una cosa sensata?
— E perché dici che dobbiamo andare via di qui? Cosa temi? Temi qualcosa per la colonia, o forse vuoi distrarre l’attenzione perché temi qualcosa per te stessa?
— Ho avuto delle visioni grazie all’Essiac. Sono entrata in contatto con degli spiriti, ma non erano i nostri antenati sulla Terra. Sono spiriti affamati. Spiriti di creature morte quando questo mondo è diventato così. Creature che ora sono consapevoli della nostra presenza. Ed è colpa mia, è tutta colpa mia! Non dovevo permettere questo rituale!
— Come posso crederti, Anaba… ma ti ascolti? Un mucchio di farneticazioni incoerenti. Tutti abbiamo avuto visioni. Le mie avevano la forma di conigli verdi. Dovrei pregarti di fuggire dai conigli verdi.
— E il fatto che il maggiore sia morto — urlò Anaba, picchiando un pugno su una pila di libri — ti sembra una farneticazione? Ti sembra una visione? Non credi che sia una prova abbastanza schiacciante? Questo è solo l’inizio, non capisci? 
— Parli di spiriti affamati ma il maggiore non è stato sbranato. Ma ucciso. Con molti tagli, come se fossero pugnalate.
— Si nutrono della vita, non della carne. Sono creature fisiche, ma animati da spiriti che sono in realtà delle ombre.
— Non ho intenzione di ascoltare un racconto di Poe in salsa nativa, Anaba. Dimmi qualcosa che mi faccia credere che non ci sia tu dietro tutto questo. Dimmi che non hai nulla a che vedere con la morte del maggiore. 
— Scrittrice, è inutile che io ti parli: tu non mi ascolti. Tutto quello che ho sempre voluto è solo proteggere la mia gente. Per proteggere la mia gente potrei fare del male a chiunque. Ma quello che occorre fare ora non è uccidere, ma fuggire.

«Cronache della Colonia» – 5

Il falò crepitava su una collina nei pressi della Notte scelta come sede di una grande festa per tutta la colonia. Era stata un’idea di Jaima: nei giorni precedenti, a seguito del salvataggio di Lilith e della scomparsa di Shin, la piccola comunità era stata scossa da tensioni, incomprensioni, dissapori. Era sicuramente il momento di cercare di fare gruppo. Così la donna non solo aveva proposto di fare una grande festa intorno al fuoco, ma anche di preparare per tutti l’Essiac, la bevanda sacra del Popolo. A differenza di bevande analoghe della maggior parte dei popoli nativi canadesi, che erano semplicemente curative, quella del Popolo comprendeva ingredienti dalle blande proprietà psicotrope, che combinati con alcune erbe sacre permettevano, si diceva, di amplificare la percezione degli spiriti, rendendo più esile il confine tra i mondi. E nelle intenzioni di Jaima avrebbe reso più esile anche il confine, e più modesta la distanza, tra questo pianeta e la Terra.

Anaba inizialmente si era detta fermamente contraria: il rituale funzionava sulla Terra – aveva detto alla sua compagna – perché là erano gli spiriti degli antenati. A cosa avrebbero aperto le porte, qui? Quali spiriti giacevano assopiti su questo mondo? A chi avrebbero rivelato la loro presenza? Il tutto senza nemmeno l’aiuto di Shin, un uomo che conosceva bene la potenza degli spiriti e il modo in cui interagire con loro, anche nei casi peggiori. Tuttavia l’insistenza di Jaima, preoccupata per l’unità della colonia, aveva finito per convincerla, e così la Ha’Oba si era lasciata trascinare.

Il maggiore Smith aveva accettato la proposta, anche se si era dimostrato meno collaborativo del solito. Aveva garantito la disponibilità di alcuni dei suoi uomini che per un’intera giornata avevano tagliato legname di indaco. Diana e i tecnici, invece, erano rimasti per tutto il tempo distaccati al terminale dell’astronave, a lavorare a una serie di statistiche su richiesta del maggiore stesso.

E così, mentre il fuoco crepitava e un calderone sobbolliva lentamente, e verso occidente si stendeva uno splendido cielo stellato, Jaima avanzò a piedi nudi, nella sua splendida tunica bianca rituale, fittamente ricamata d’oro e di scarlatto, e salutò tutti gli abitanti della colonia, dando loro il benvenuto, il petto ansante per l’emozione.
— … e se anche siamo lontani da quella che una volta era “casa” — disse nel suo discorso — non dobbiamo sentirci perduti! Stiamo faticosamente costruendo una nuova casa, con gente che stiamo imparando a considerare la nostra famiglia. Uniti, insieme, come una vera famiglia deve fare. E se anche siamo lontani, tuttavia, nel profondo del nostro cuore portiamo con noi i nostri ricordi, i nostri cari, i nostri avi, che scorrono nel nostro sangue. In questo posto la natura è aliena, ma i nostri spiriti sono con noi. Per questo abbiamo preparato per tutti la nostra bevanda sacra, che ci aiuterà a percepire come siamo tutti legati e fratelli, e potremo così comunicare tra di noi e con i nostri spiriti!
Anaba, poco dietro di lei, indossava i suoi abiti tradizionali di cuoio, con una corona di piccole piume rosse infilate tra i capelli. Si avvicinò con una grande coppa di legno, nella quale mise un mestolo di Essiac. Sospirò, ben poco convinta, ma poi lo sguardo amorevole di Jaima la spinse a continuare. 
I primi ad avvicinarsi furono alcuni membri del Popolo, che bevvero un sorso dalla coppa, a turno. Poi, pian piano, superando l’iniziale diffidenza, anche gli altri iniziarono, in ordine sparso, ad avvicinarsi.

Quattro ragazzi, che erano riusciti a far imbarcare chitarre e percussioni, improvvisarono un po’ di musica e Johnny Jones Jr., per tutti J.J., un ragazzone biondo che sulla Terra era stato un giocatore di hockey universitario di belle speranze, si faceva notare ballando senza freni. Nel ballare, finì addosso al fratello di Lilith, il giovane Paytah, che stava cercando un modo per potersi intrufolare a bere l’Essiac rituale, vietato ai ragazzini della sua età.
— Ciao pupazzetto! — disse J.J. al giovane fratello di Lilith. 
Poi, indicando Adalindee che ballava poco lontano:
— Che ne dici di quella? Te la faresti?
Il ragazzino guardò la bionda seguace di Shin, che aveva più o meno l’età di sua sorella, fece una smorfia di disgusto e rispose:
— Quella?! Ma è uno dei membri più inutili della colonia! Ora che non c’è più l’eremita non sa nemmeno cosa fare della sua vita.
— Quindi “no”. Allora vado io. 
E si allontanò in direzione della ragazza, dalla quale prese una sberla pochi istanti dopo.
Paytah, soffocata una mezza risata, provò poi a mettersi in coda per l’Essiac, sperando di non venir notato, ma venne stoppato quasi subito da un soldato:
— Buono, ragazzo. Non sono per niente sicuro che faccia bene a me, figurati a te! Aria.
Anaba, poco lontana, fulminò Paytah con lo sguardo. Al ragazzo non restò che togliersi rapidamente di mezzo, silenzio e testa bassa.

Malika, bevuto un piccolo sorso di Essiac giusto per partecipare, si trasse in disparte, riempiendosi gli occhi della festa e prendendo appunti per scriverne il giorno successivo. Si guardò intorno cercando di vedere se Lilith aveva infine deciso di partecipare al rituale, ma invece della ragazza vide il maggiore Smith che si allontanava, bisbigliando qualcosa al sergente Tibs. Lo seguì da lontano, e lo vide infilarsi nella tensostruttura cubicolare del Centro Culturale.
“In biblioteca… nel bel mezzo di una festa?” pensò la poetessa perplessa, seguendolo.

Anaba guardava Jaima sforzandosi di sorridere, ma intanto, continuamente, cercava di scrutare in mezzo alla folla alla ricerca di Tallulah. Era ancora convinta che infondo l’idea del matrimonio era stata buona, ma sfortunata. Sarebbe stata una buona soluzione per la colonia e avrebbe aiutato la ragazza a sbocciare e superare tutte le sue insicurezze. Aveva enormi qualità, potenzialmente, ma era persa dietro i fantasmi della sua famiglia e della sua ribellione. Ma nel tentativo di guidarla a prendere il suo posto in seno alla comunità del Popolo, Anaba cominciava a temere di averla allontanata definitivamente. Poi, però, verso la fine della serata, vide il suo codino spuntare dietro un uomo, tra gli ultimi della fila. Anaba trasse un profondo sospiro di sollievo, attendendo impaziente il turno della ragazza. Jaima se ne accorse, le accarezzò un braccio e sorrise. 
Lilith avanzò, prese la coppa e sospirò profondamente, guardandoci dentro. Essendo da poco maggiorenne, era la prima volta che poteva partecipare al rituale. Sembrò sul punto di rinunciare, mentre Anaba si mordeva le labbra, ansiosa.
Poi la ragazza abbandonò gli indugi e bevve un profondo sorso.
Quando le rese la coppa, Anaba sorrise e disse:
— Sono contenta di vederti, Tallulah. Il primo rituale è un passo importante per i ragazzi del nostro Popolo. Se fossimo sulla Terra potrei accompagnarti nel tuo primo viaggio, mostrandoti gli spiriti disegnati nel cielo dalle stelle, ma questo mondo ha stelle diverse e quindi spiriti diversi. Dovrai trovarli da sola, purtroppo… spero solo che non siano spaventosi come le creature che disegni.
Lilith accennò un timido sorriso, guardò il cielo, in lontananza, verso i ghiacci, e un brivido profondo le corse lungo la schiena. 

***

Il maggiore Smith scorreva su un datapad pagine su pagine di dati statistici, confrontando di tanto in tanto i risultati con i grafici su un volume cartacei, borbottando. Poi prese un vecchio volume con la copertina in pelle, pieno di appunti scritti a matita accanto al testo stampato.
Proprio in quel momento Malika scostò la tenda ed entrò.
— Ecco, proprio ciò che mi serviva. — disse il maggiore, la voce leggermente impastata, ma non a sufficienza per poterlo giudicare alticcio — Malika, lei è la persona giusta con cui condividere la mia riflessione. Senta qui: “Gli uccelli sulla terra moriranno, i fiumi si seccheranno. L’uomo bianco morirà, l’uomo rosso sopravvivrà e troverà una nuova casa tra le stelle”. È una vecchia leggenda del Popolo. Cosa ne pensa?
— Mah, in realtà non c’è molto da pensare. — rispose la donna — Molti di questi popoli indigeni, schiacciati dall’invasione europea, trovarono nelle leggende una valvola di sfogo, usandole e modificandole per elaborare le ingiustizie che sentivano di subire. Al contempo rappresentavano la speranza in un futuro riscatto. Ora sono tra le stelle, è vero, eppure non mi sembra lo stiano vivendo come il compimento di una profezia. Tutt’altro. Intanto qui intorno vedo un sacco di “uomini bianchi”. Inoltre i membri del Popolo stanno soffrendo parecchio: il loro legame con la loro Terra è molto più forte del nostro, e averlo dovuto recidere è stato ancora più doloroso.
— Noi… loro… credo che lei non sappia tutto. Forse il Popolo in questa colonia è molto più esteso di quanto non si creda.
— In che senso? — chiese Malika, non capendo dove il militare volesse andare a parare.
Il maggiore le mostrò il datapad. Riportava dati estrapolati dalla mappatura genetica completa della colonia.
— Curiosamente — disse l’uomo con un tono indecifrabile, ma poco promettente — gran parte della gente selezionata per il viaggio sulla CR-26100 aveva una certa percentuale, in alcuni casi molto bassa, ma presente, di sangue nativo americano. 
— Non c’è niente di curioso. I popoli sconfitti finiscono quasi sempre per essere assorbiti dai conquistatori, ma non è che per questo possiamo dire che le nuove generazioni appartengano al popolo sconfitto. Si tratta di tracce residuali. Come quelle dei neandertaliani nei popoli europei.
— Ancora più curiosamente — continuò il maggiore, ignorando l’obiezione — praticamente tutti quelli che non avevano nemmeno una goccia di sangue nativo sono morti tra il risveglio e l’atterraggio. L’ultimo era Shin, ed è morto dopo che è andato a monte il matrimonio combinato con la ragazza del Popolo. Un caso? O l’uomo bianco non sopravvivrà, per davvero?
— Mi meraviglio di lei, maggiore. Non è il caso di farsi prendere dalla paranoia. Siamo nel XXII secolo, ci abbandoniamo ancora al pensiero magico?
— Macché. Sono un soldato, sono pragmatico. Credo a quello che ti uccide fisicamente, non alle profezie.
— E allora?
— E allora… e allora io credo che qualcuno di molto fisico, che non è di certo uno spirito né tantomeno una divinità, stia manovrando affinché si verifichino queste condizioni.
— Ma come? Qualcuno che ha boicottato le capsule sulla terra per far morire solo chi non ha sangue nativo? Non le sembra assurdo? Bastava non imbarcarli.
— No, quello non lo credo. — rispose il maggiore — Credo invece che qualcuno stia facendo qualcosa ora. Che abbia eliminato consciamente chi non era almeno in parte nativo. Qualcuno che non si fermerà, magari uccidendo uno alla volta anche chi ha meno sangue nativo. Credo che qualcuno stia facendo una specie di pulizia etnica, diciamo così, per far avverare la profezia.
— Ma ha delle prove? Almeno degli indizi?
Il maggiore si alzò, iniziando a camminare nervosamente avanti e indietro nella stanza, mentre Malika lo fissava.
— No. E in ogni caso a me interessa salvaguardare l’unità della colonia, non mi importano le origini. E per fare questo non posso e non voglio scatenare uno contro l’altro il Popolo e quelli che ne hanno magari un 1% di sangue e quindi si sentono minacciati da questa follia. Ma se c’è davvero un complotto di questo tipo, è mio compito scoprirlo, fermarlo ed eliminare la minaccia. E dubito che chi governa tutto il Popolo non ne sia al corrente.
Malika rimase in silenzio… in passato aveva sempre ritenuto Anaba un elemento positivo. Innocuo, nel peggiore dei casi. Ma gli eventi degli ultimi giorni non le facevano più apparire la Ha’Oba come una bonaria nonna di un vecchio popolo un tantino hippie. Piuttosto la reazionaria rimanenza di una cultura superata e legata con le unghie e con i denti a vecchie credenze, opposta all’integrazione e alla grande famiglia libera su cui avrebbe dovuto fondarsi la nuova umanità. Poteva essere plausibile che stesse cercando di creare una comunità puramente nativa, per liberarsi del giogo dell’uomo bianco?
— Non facciamoci prendere dalla fantasia… adesso… — disse, ma il suo tono ben poco convinto la tradiva, e il maggiore la guardò e un sorriso freddo gli balenò sul volto.
— Ci siamo capiti. — disse l’uomo — Contrariamente a quanto si creda, artisti e militari hanno molto in comune. Entrambi vogliamo che l’umanità raggiunga le sue vette. E a questo punto, gli abitanti rimasti nella colonia, per quello che ne sappiamo, sono l’umanità. Tutta l’umanità.

Distratto da un rumore, il maggiore si voltò verso l’uscita, scostò la tenda, e urlando: 
— Idiota! Cosa stai facendo!
corse a strattonare J.J. che, in piedi su un sedile, stava pisciando sul mezzo di ricognizione cingolato.
Malika uscì seguendo il maggiore e faticò a trattenere un sogghigno di fronte alla scena del ragazzone biondo a braghe abbassate che continuava a pisciare mentre il maggiore cercava di evitare gli schizzi e provava a tirarlo giù di forza.
La poetessa decise di andarsene. Fece per allontanarsi dal Centro Culturale e vide Anaba, non lontana, che si muoveva furtivamente, con gli occhi spiritati.
“Era qui…” pensò “chissà quanto ha sentito…”.

«Cronache della Colonia» – 4

II. Morale

Nel piccolo modulo abitativo di Anaba, tre donne mangiavano in un silenzio imbarazzato. Jaima, compagna da una vita della Ha’Oba, era una una delle persone più gentili e premurose della colonia. Fece l’occhiolino a Lilith, poi disse alla compagna: 
— Amore, si può sapere cos’è questo muso lungo? Siamo a cena, non è bello.
— Beh, a quanto pare — rispose Anaba con un mezzo sorriso sardonico — i desideri della nostra piccola Tallulah si sono avverati. Mi sembra precisamente il muso più adatto alla situazione.
Lilith, sollevando lo sguardo dal piatto, deglutì a fatica il boccone di sinto-burger con le salse rigenerate. Era uno dei suoi piatti preferiti, ma quel giorno faceva una dannata fatica a mangiare. La sparizione di Shin, catturato e forse addirittura ucciso da chissà quale creatura aliena, aveva tolto la ragazza dall’impiccio di un matrimonio non voluto… tuttavia si sentiva male già per il solo fatto che quella cosa la facesse sentire bene. Non poteva fare a meno di considerarsi una brutta persona: essere felice per la morte di un uomo che, in fondo, non le aveva fatto niente di male le appariva semplicemente orribile. Per quel che le era stato detto, non era nemmeno favorevole al piano di Anaba.
Jaima passò lo sguardo dalla ragazza, che deglutiva a fatica con gli occhi fissi nel piatto, alla compagna, che pasticciava gli avanzi con le posate. Anaba odiava il cibo sintetico e non vedeva l’ora che gli esami permettessero di coltivare qualche pianta terrestre e cucinare qualcosa di decente, ma solitamente aveva troppo rispetto per il cibo e il lavoro che l’aveva prodotto.
— Sapete cosa sarebbe bello fare una di queste sere? — disse Jaima, provando a cambiare argomento — Potremmo chiedere a Malika di leggere qualcuna delle sue poesie davanti al fuoco. Sono davvero belle, certe parole toccano il cuore.
— S-sì — balbettò Lilith, continuando a fissare il piatto — Non sono male, si potrebbe… si potrebbe fare.
— Tra l’altro, anche tu sei una ragazza molto creativa. — disse Jaima — Sono convinta che potresti essere anche tu una brava poetessa. O un’artista di altro genere. In un mondo di centotrenta persone credo sia bene ricominciare a coltivare l’arte, e non sprecare talento e inclinazioni.
— Già — disse Anaba, cogliendo le altre di sorpresa — Malika sa fare il suo lavoro, ma non ha le nostre tradizioni. Tallulah, forse tu potresti aggiungere questo pezzo e perpetuare la nostra cultura.
— Non sono una poetessa come Malika. Anzi, credo di non essere proprio portata per l’arte in generale. Però cerco anch’io di tirar fuori quello che provo e provo a scrivere le mie storie — disse Lilith, prendendo da una tasca il taccuino che le aveva donato Malika e che, nel frattempo, aveva iniziato a riempire. Lo porse a Jaima.
La donna iniziò a sfogliarlo. Vide fitte pagine di quello che sembrava un manga gotico piuttosto splatter.
— Oh. —  disse Jaima perplessa, ma con affetto — Che disegni… originali. Sei brava, davvero!
Lilith guardava Anaba di sottecchi, in attesa anche del suo giudizio. Era pronta al solito rimbrotto. Era pronta a essere sminuita come al solito da quella donna che per lei mostrava sempre e solo scarsa considerazione e dalla quale, in fondo, ogni volta, sperava di sentire una parola di approvazione, un complimento.
La Ha’Oba prese il taccuino dalle mani di Jaima e iniziò a sfogliarlo, scorrendo le immagini una dopo l’altra, leggendo velocemente le strane vicende narrate in quell’inquietante assembramento di scene truculente e dialoghi truci, ma tutto sommato teneri nel loro essere ingenui e sgraziatamente crudi. Vi riconobbe molti elementi della vita della ragazza e percepì il dispiacere di non riuscire a dare al mondo ciò che il mondo sembrava volere da lei, e smarrimento. E, infine, vide un uomo catturato e dilaniato da una pianta carnivora, e fu fin troppo facile riconoscerci il dramma della sparizione di Shin. Tuttavia, Anaba vide in quelle immagini rimorso, non compiacimento. E provò pietà per l’anima tormentata della ragazza. Alzò gli occhi, e per la prima volta notò il suo acchiappasogni che, al collo di Lilith, faceva capolino da sotto la maglietta militare.
— È un genere che conosco poco — fu la premessa — ma ci vedo davvero del talento. Sarebbe molto bello poter esporre i tuoi lavori, un giorno. Oppure, perché no, stamparli e dare a tutti la possibilità di leggerli. Forse, però, ora non è il momento adatto. Forse è meglio per tutti se ci lasciamo alle spalle la vicenda di Shin. Ma sono sicura che ne disegnerai altre e se ti farà piacere le leggerò volentieri.
Lilith annuì, prese il suo taccuino e lo mise via, con un mezzo sorriso, mentre Jaima guardava la scena, felice per aver contribuito ad allentare la tensione.

***

Al fine di preservare parte della cultura terrestre anche in caso di avaria alle memorie digitali dell’astronave, la Canadian Railspace aveva deciso di imbarcare un modesto numero di volumi cartacei e riproduzioni di dipinti da conservare. Da pochi giorni gli uomini del maggiore Smith erano riusciti a portare tutto quanto alla colonia, in uno dei più grossi cubicoli tensostrutturali disponibili, adibito a “Centro Culturale”. 

Seduta a una scrivania-lavagna in telo Parker-Lewis, Malika scriveva con un pennino su dei fogli di carta, apprezzando la fascinosa antichità di quel gesto. Mentre componeva il suo poema, scandiva parole cariche di sofferenza e alienazione, accompagnando gli accenti tonici con gesti da direttore d’orchestra, seguendo il ritmo con il capo, facendo ondeggiare nell’aria i capelli rossi. Giunta a un punto cruciale, sentì l’impulso di alzarsi in piedi per metterci più enfasi, quando notò un movimento. Si voltò, e vide la figura minuta di Lilith, con la sua tempia rasata e il codino sull’altro lato, il braccio destro tatuato, la solita maglietta militare e, soprattutto, una mitraglietta beta-Penkol tenuta distrattamente con la mano sinistra. Era appoggiata a un tubolare portante e sembrava stesse ascoltando la sua opera sorridendo.
— … Lilith… da quanto tempo sei qui?
— Non molto, ho sentito solo gli ultimi versi. Me la faresti sentire dall’inizio?
Malika si schermì: 
— Non è finito, c’è ancora tanto lavoro da fare. Te lo farò sentire quando sarà pronto…
— Almeno un pezzo, dai. Mi sembra davvero bello così, non credo ci sia bisogno di lavorarci poi molto.
Malika, felice per l’approvazione di una delle poche menti creative e caotiche della colonia, iniziò a declamare il passaggio migliore, quello che le sembrava emotivamente più forte. Era deliziata dal fatto che Lilith cogliesse al volo tutti i punti che lei stessa riteneva più belli.
Finì, aspettò qualche secondo e, quando Lilith applaudì, arrossì violentemente.
— Ti piace? — disse — Rappresenta un po’ come mi sento in questo nuovo mondo, ma allo stesso tempo ho voluto mantenere un legame con il vecchio, usando una metrica classica. Anche se non tutti i tonici sono proprio nella posizione giusta, ecco, su questo devo lavorare ancora, ma credo che…
— … Beh — la interruppe Lilith — io non so granché di queste cose. So solo che mi suona bene e mi piace.
Lilith sedette su uno sgabello metallico, appoggiando la mitraglietta su una pila di libri. Mancò poco che a Malika si fermasse il cuore, vedendo un’arma da fuoco – e Dio solo sapeva quali oli e solventi poteva perdere quell’arnese – appoggiata sulle ultime vestigia della cultura terrestre. Cercò tuttavia di non mostrare la sua ansia per non irritare la ragazza.
— Che ne diresti — disse poi la poetessa — se organizzassimo una seduta di scrittura collettiva? Pensa che bello se potesse spingere la gente a riflettere e pensare di più e agire un po’ di meno… c’è troppa frenesia di azione in questa comunità, come sarebbe bello se invece di doversi occupare ogni momento di qualcosa da costruire o da verificare, tutti si sentissero più liberi di sognare, e scrivere, e condividere… se questa colonia fosse una nuova oasi di pace e di creatività… tutti insieme… — e aggiunse, solo mentalmente, “e non di armi coi loro strani oli che colano sui libri”.
— Mah, non saprei — rispose la ragazza, scuotendo il codino — in realtà a me piace disegnare e scrivere le mie storie da sola, per tirare fuori cose che mi schiacciano dentro. Non credo che mi piacerebbe farlo insieme ad altri. 
Vedendola in difficoltà, e tutto desiderando fuorché aggiungere pesi a quella bella anima turbolenta e dolente, Malika decise di cedere immediatamente il passo:
— Vedo che questa idea ti mette un po’ in difficoltà, ma non preoccuparti! Si fanno solo le cose che danno piacere, se non te la senti non fa nulla. Dimmi solo che ci penserai: se vorrai potrai partecipare, oppure anche solo ascoltare le idee degli altri, come hai fatto prima con la mia poesia. Anche ascoltare è importante, sai? Non devi per forza esporti.
Lilith sorrise e fece un cenno di assenso col capo, poi raccolse la sua mitraglietta – e Malika, con un colpo d’occhio furtivo controllò che non avesse macchiato il libro – e fece per uscire.
Scostando la tenda, buttò lì una mezza frase, quasi più tra sé e sé che alla poetessa: 
— Forse facendo pensare troppo le persone non si fa il bene di una colonia così piccola. Se tutti si rendessero conto di essere solo un pugno di persone perse in mezzo a miliardi di chilometri di spazio vuoto, senza casa, senza aiuto, ne proverebbero orrore. impazzirebbero.

«Cronache della Colonia» – 3

Mentre attendeva che Anaba parlasse con Lilith, scossa per la reazione della ragazza alla vista della matriarca, Malika passeggiava nervosamente avanti e indietro sul piccolo sentiero fuori dall’ospedale da campo, osservando le piante di quel pianeta alieno. I sentieri avevano vita breve: se non li si puliva continuamente, nel giro di due o tre giorni la foresta se ne riappropriava. Quegli alberi crescevano in ogni centimetro libero dell’anello, portando all’estremo la loro lotta per la sopravvivenza. Se gli umani non avessero messo la stessa determinazione nel cercare di sopravvivere in quello strano mondo, sarebbero stati inghiottiti e dimenticati come i loro sentieri.

Nella sua nervosa passeggiata avanti e indietro, a un tratto notò, per terra, il giubbetto con il nome di Lilith, che aveva indosso quando l’avevano trovata mezza assiderata nella Notte. Si avvicinò, e la sua attenzione venne attratta da qualcosa di nero, di un materiale ignoto, incastrato tra le maglie protettive in kevlar. Sembrava un dente, o un artiglio, o forse solo un frammento di roccia dalla forma strana. Lo disincastrò e lo rigirò tra le mani. Quando sentì la tenda scostarsi e vide Anaba uscire, lo fece scivolare in una tasca del suo giaccone.

— Dimmi — disse Anaba, la voce un po’ stanca.
— Ha’Oba, perdona il mio ardire. So benissimo che Lilith è stanca, è scossa, temo anche che sragioni. Tuttavia se mi tengo un dubbio dentro finisco per star male, per cui non posso fare a meno di chiedertelo: non la stai costringendo a sposarsi, vero?
Anaba non riuscì a celare una smorfia di disappunto. I suoi piani per il Popolo non dovevano essere raccontati a chiunque. Riguardavano solo il Popolo. Tuttavia Malika aveva un animo gentile, quindi ritenne che non sarebbe mai stata una nemica e si concesse di parlarle.
— In realtà spero che non la veda come una costrizione, ma come una sua scelta, per il bene suo e del Popolo di cui fa parte.
— Come sarebbe a dire “una scelta” — disse Malika andando su tutte le furie, alzando la voce di un paio di ottave e picchiando i piedi per terra per la rabbia — io… io non ho parole! Speravo fossero le farneticazioni date dall’assideramento! E invece…
— Sai bene — rispose Anaba — che il nostro popolo è stato portato qui quasi fosse una specie rara da conservare, come animali da preservare dall’estinzione, e come serbatoio di un gene che poteva essere utile alla nuova vita dell’umanità su un pianeta lontano. Tuttavia non raggiungeremo mai quel pianeta. Non siamo più utili, siamo solo gli animali da preservare. E sai benissimo che quando l’uomo occidentale deve decidere se salvare se stesso o gli animali, mangia gli animali. Noi dobbiamo essere indipendenti e in grado di pensare al nostro futuro. E per farlo abbiamo bisogno di alleati. Per questo ho chiesto a Tallulah di sposare Shin. Lui può comprendere la nostra cultura e far parte della famiglia, ed essere l’ago della bilancia tra noi e voi.
Malika sgranò gli occhi.
— Ma non esiste nessun “noi”, non esiste nessun “voi”… siamo pochissimi, se non ci consideriamo un’unica famiglia che deve sopravvivere tutta assieme, unita, non ce la faremo mai. La tua gente è stata scelta per partire, ma qui e ora siete come tutti gli altri, non siete una minoranza.
— E non vogliamo diventarlo, come sempre siamo stati considerati dai colonizzatori — rispose la donna.
— Io non vedo colonizzatori, Ha’Oba, vedo solo una ragazza che vuole essere chiamata Lilith, e che tu per non so quale puntiglio ti ostini a chiamare Tallulah. Una ragazza che ha rischiato di morire per scappare dalle tue farneticazioni e dalle tue imposizioni!
— Tallulah — rispose Anaba, calcando la voce sul nome nativo della ragazza — è una bambina che deve crescere, e per farlo deve liberarsi di Lilith.
— Tu vuoi che la tua gente sia libera, ma imponi a una tua “figlia” il tuo volere, togliendole la libertà — quasi gridò Malika, piantandole l’indice sul petto.
— Il fatto che tu non capisca la scelta, mi dà ragione: non sei pronta tu, come non siete pronti tutti voi, per accettare la nostra gente.
— Non sono io che non capisco la tua scelta, è Lilith.
— Tallulah capirà ciò che Lilith non può capire.

***

Nella fitta foresta dalle tinte violacee procedevano in fila indiana Adalinde e Shin. La prima,  seguace dell’eremita, era una ragazza di diciannove anni, alta, dai capelli biondi e gli occhi scuri e dallo spiccato accento francese. Procedeva con determinazione ed entusiasmo, tagliando i rami spinosi e le squame pendule, allargando il più possibile il sentiero, un colpo di machete dopo l’altro, senza smettere mai di parlare. 
Questo irritava il suo maestro che per anni aveva, invano, cercato di farle comprendere l’importanza del silenzio e della concentrazione. Proseguiva dietro di lei, le mani dietro la schiena, con indosso la sua tunica bianca. Concentrava i suoi sforzi nel mantenere la calma. 
— Maestro… — disse la ragazza — Ma come faremo a capire quando avremo trovato il posto giusto?
— Quando smetterai di chiederlo, probabilmente saremo nel posto giusto — rispose Shin, lisciandosi i baffi e riuscendo a resistere all’impulso di prendere a male parole la sua apprendista e di cacciarla a pelare rape insieme ai militari del maggiore Smith.
— Ma Maestro… — insistette la ragazza — è passato tanto tempo dall’ultima volta che l’ho chiesto… e del resto se non lo chiedo non posso savoir, e se non so pas cosa sto cercando non posso sapere quando l’avrò trovato.
Mentre la pazienza di Shin andava definitivamente in frantumi giunse, con un rumore di inciampo e un capitombolo, il giovane Paytah, ragazzino di dodici anni appartenente al Popolo, che rotolò in mezzo al sentiero, finendo tra i due.
Adalinde, colta di sorpresa, si girò di scatto come a parare un attacco di chissà quale creatura annidata nella selva, ed esclamò:
Merde, Paytah, qu’est ce que tu fais ici?
— Ed ecco che ancora una volta la ricerca dell’eremo è finita male — mormorò invece Shin.
Il ragazzino si alzò in piedi, si tolse le spine di indaco dal giubbetto e la terra dai capelli, apparentemente incurante della reazione di Adalinde e Shin, poi si rivolse all’eremita:
— Perché non vuoi sposare mia sorella? Cos’ha che non va?!
Adalinde, imbarazzata, guardava ora il ragazzino, ora il suo Maestro.
— Sono cose più grandi di quello che la tua testa di bambino può comprendere. — disse l’uomo — Non fanno per te e non è bene che tu te ne occupi.
— Ma è per il bene di tutti, è per il bene del Popolo! — continuò Paytah, indispettito perché trattato come un bambino — Lo so che mia sorella non è un granché… ma ha anche lei qualche qualità in fondo.
— Ma il grande Maestro deve votarsi au célibat perpétuel… — provò a dire, poco convinta, Adalinde.
— Ma smettila! — la interruppe Paytah — È assurdo tutto questo. Non ha senso. Se non siamo uniti non sopravviveremo mai. Dobbiamo seguire quello che dice la Ha’Oba e unire i popoli. 
Continuando a protestare, Paytah colpì con un calcio un sasso, sfiorando il volto di Adalinde.
— Fai attention! — gridò la ragazza.
— Ma taci! — rispose urlando indispettito il ragazzino — Siamo un mondo di centotrenta persone dove serve il lavoro di tutti e tu riesci a essere comunque inutile, facendo l’assistente di un eremita che, per definizione, dovrebbe vivere da solo, senza assistenti!
All’improvviso Shin impose il silenzio. I tre si guardarono, poi sentirono chiaramente un forte rumore in avvicinamento.
— Correte! — gridò Shin.
Paytah e Adalinde si lanciarono a perdifiato sul sentiero da cui erano arrivati. Dietro di loro correva Shin, proteggendoli. Qualunque cosa fosse, il rumore continuava ad avvicinarsi, sbattendo le enormi squame pendule degli indaco e spaccando spine e sollevando polvere, mentre uno stormo di piccoli fiori alati si alzò da un ramo e volò via.
— Presto! — urlò Shin — Più veloci, più veloci!! — ansimò — Correte…
La sua voce si smorzò, si udì come un tonfo. Adalinde si voltò giusto in tempo per vedere qualcosa che sembrava una pianta afferrare con delle liane il suo Maestro e trascinarlo nel folto della foresta.
La ragazza urlò, un urlo feroce, disperato, di puro orrore. Poi Paytah la scosse:
— Scappiamo, corri!
I due corsero via, verso la colonia.

***

Quando il silenzio calò nuovamente sull’Anello, Shin si alzò da terra. Tagliò la liana che gli cingeva la caviglia e disarmò quella che sembrava una classica trappola. Poi, dopo aver simulato una specie di traccia di sangue, se ne andò sorridente nella foresta nella direzione opposta, assaporando il suo primo sospiro di totale libertà.

«Cronache della Colonia» – 2

I cingoli uncinati del piccolo mezzo da ricognizione spaccavano il ghiaccio procedendo sul confine tra l’Anello e la Notte. Il soldato alla guida indossava un visore notturno, ma in quell’eterno tramonto non risultava particolarmente efficace. 
Al suo fianco il maggiore Smith tamburellava le dita sul cruscotto, controllando che il sensore della pila nucleare che alimentava il mezzo non si inceppasse di nuovo.
— Te lo chiedo di nuovo — disse all’uomo orientale seduto dietro di lui — nella tua ricerca di un posto per fondare il tuo dannato eremo, ti sei mai spinto in questa zona?
Spazientito per dover ripetere per l’ennesima volta la stessa cosa, Shin rispose, meccanicamente: 
— È una delle zone peggiori che abbia mai visto in vita mia, completamente inospitale, e non avrebbe senso fondarci un eremo o un monastero. E sono ore che faccio presente che non ha senso nemmeno essere venuti a cercare una ragazzina capricciosa che mette a repentaglio la sua vita, e rischiare la nostra per farlo. Non sono sopravvissuto a non so quanti anni di viaggio, a un’avaria, a un atterraggio di fortuna, a un mondo diviso tra ghiaccio e fuoco, alla sindrome di Eisermann-Cibì-come-cazzo-si-chiama, per morire di freddo cercando un’idiota che si è persa dove sapeva benissimo di non dover andare.
— Smettila di discutere gli ordini. Dobbiamo trovare la ragazza, ho bisogno di collaborazione.
— Maggiore — replicò di nuovo Shin, più acido — Ha bisogno di collaborazione per trovare la ragazza o solo per obbedire come un cagnolino alla Ha’Oba? Tutto quello che dice quella specie di sciamana diventa immediatamente legge.
— Stammi a sentire, imbecille. — rispose, rabbioso, il maggiore — Se ti fosse sfuggito, sono rimasti solo centotrenta umani su questo mondo. Per quello che ne sappiamo potrebbero esserci solo questi centotrenta umani in tutto l’universo. Se devo prenderti a calci in culo per salvare una delle poche femmine fertili rimaste della nostra fottuta specie, lo farò. E sarà un piacere, oltre che un dovere. Quindi dimmi solo cose utili, d’ora in poi. Sono stato chiaro?
— Sì. — disse Shin con disappunto.
— “Sissignore”, se non ti spiace. Sono pur sempre il capo delle forze armate terrestri, in questo momento, e credo proprio di essermelo guadagnato sul campo, il rispetto.
— Sissignore — rispose l’eremita, con gli occhi neri piantati con rabbia nel volto del maggiore.
— Molto bene. — disse il militare, poi si rivolse ai soldati a bordo — Ora muovete tutti il culo e scendete, che i sensori del mezzo rilevano movimento e segnali vitali. 
Il maggiore, avvolto nel suo giaccone termico, con il basco calato sui cortissimi capelli grigi, scrutava in lontananza col binocolo di rilevazione vitale sintonizzato sulle frequenze del carbonio e dell’ossigeno. 
— Dannazione — mormorò, in preda alla frustrazione — i segnali erano chiari, e le routine di verifica dicono che gli strumenti funzionano. Dove ti sei cacciata, ragazzina?

Shin, chino al suolo ad esaminare quelle che solo a lui sembravano tracce ed erano state ignorate dai soldati, si alzò e disse con rabbia alla donna che seguiva il maggiore:
— Se non sono tracce, mi spieghi questo: sabbia sul ghiaccio!
— Veramente — rispose la donna, un geologo dell’esercito di nome Diana — credo sia piuttosto facile da spiegare. I fenomeni atmosferici di questo mondo non ci sono ancora chiarissimi, ma quella sabbia potrebbe essere stata portata dal vento, fin dal Giorno, e fatta cadere dalle precipitazioni che non sono affatto rare. In fondo accade anche sulla terra.
— Sulla terra… a casa… — mormorò tra sé Shin, guardando l’orizzonte oscuro della Notte.
— Sono sicura — continuò la donna con tono accondiscendente, sistemandosi gli occhiali — che quando avremo capito meglio come funziona, riusciremo a trasformare anche questo mondo in qualcosa che chiameremo “casa”.
Il maggiore Smith zittì la donna con un cenno, vedendo uno dei soldati che si agitava.
— Maggiore! — disse il soldato — Guardi! Qualcosa che si muove a ore 11, l’abbiamo trovata!
— La vedo, sergente Tibs. La vedo. Quella cosa si sta muovendo. E non so cosa sia, ma mi gioco i tuoi coglioni che non è la ragazza. Tieni d’occhio quella cosa e se si avvicina dai immediatamente ordine di sparare. Williamson, Clarke, Bradbury, continuate verso nord. Tenetevi in contatto radio. Noi proviamo a muoverci verso sud.
Diana provò a riconfigurare la sua strumentazione, cercando di capire qualcosa in più della figura in movimento in lontananza, ma riusciva a tracciarla sulle frequenze delle principali forme di vita conosciute.
— Andiamocene. È inutile e stiamo rischiando troppo — disse una voce nota proveniente dal mezzo: era Shin, prontamente risalito, che invitava gli altri a fare altrettanto.
— Se anche fosse riuscita a sopravvivere al gelo — continuò — di certo quella cosa l’avrà uccisa, magari mangiata. Ora credo sia più responsabile portare al sicuro i maschi e le femmine fertili della missione. Non trova, maggiore Smith?
Smith continuava a osservare la cosa, e mentre le immagini sembravano diventare via via più chiare la sua mano destra scivolava verso la fondina.
— Presto! — urlò nella radio la voce di un soldato di un’altra pattuglia — Accorrete al rendez-vous 7, l’abbiamo trovata! Ripeto, l’abbiamo trovata, è incosciente, ma viva!
— Che fosse un’incosciente lo sapevamo già — mormorò Shin, lisciandosi i lunghi baffi spioventi.
Grugnendo, continuando a osservare la cosa, il maggiore mormorò: 
— Per oggi abbiamo risolto un problema… speriamo di non averne trovato uno peggiore. 

***

Il dottor Thomas cambiò la flebo e diede un paio di indicazioni all’infermiera, poi entrambi uscirono dalla stanza del piccolo ospedale da campo della colonia, costituito da una decina di tende collegate tra loro.

Lilith si era ripresa. Era vigile, sdraiata su una branda e coperta da un telo termico. Accanto a lei stava una donna dalla carnagione chiara, il viso coperto di lentiggini e i capelli rossi raccolti a cipolla. Il suo nome era Malika ed era una poetessa originaria di Terranova. Sulla giacca militare portava una vezzosa spilla a forma di farfalla, in oro, con piccole pietre colorate. L’abbigliamento standard era rigoroso e funzionale ma, su di lei, appariva goffo e sgraziato. Non come sul maggiore Smith o su Lilith. Gli occhi verdi di Malika, dolci e un po’ persi, si posarono sulla ragazza. Poi le accarezzò la testa come a voler sentire la temperatura sulla fronte, e sorridendo disse:
— È davvero un miracolo che ti abbiano trovata… un vero miracolo!
— Bel miracolo di merda… — mormorò Lilith.
— Non dire così… — rispose cambiando tono la poetessa, passando repentinamente da felicità a dispiacere in quel modo piuttosto enfatico che la caratterizzava — Io sono felicissima che ti abbiano riportata a casa sana e salva! Anzi, tutti, tutti siamo felicissimi. Sei la nostra ragazza terribile, una delle anime della colonia!
— In questa maledetta colonia speravo di trovare un nuovo mondo ma è peggio di quello vecchio. Almeno sulla terra mi bastava ignorare chi ce l’aveva con me e isolarmi. Qui non è possibile. Devi stare alle regole della colonia, devi fare quello che è meglio per la colonia, tutti hanno il diritto di importi quello che devi fare e come devi vivere. Anche Anaba… ma tu non puoi sapere.
— Cosa c’entra la Ha’Oba? Lei stravede per te, è molto protettiva con tutta la gente… — esitò, sapendo che era un argomento tabù per Lilith, poi completò la frase — del vostro Popolo.
— Anaba è pazza. A lei non interessano le singole persone, ma il Popolo, nel suo insieme. Se faccio quello che secondo lei è il bene del Popolo le piaccio, altrimenti preferirebbe vedermi morta.
Malika ascoltava con gli occhi sgranati, incredula. Aveva sempre visto la matriarca come una donna un po’ stramba, nei suoi abiti tradizionali, ma tenuta in gran conto dal maggiore Smith e da tutti quelli che avevano un po’ di potere, o di prestigio, nella colonia. Tutto sommato le sembrava una saggia nonna, gentile e sorridente. Le parole di Lilith le sembravano frutto della rabbia di un’adolescente che la denuncia di una persona adulta che aveva subito un torto. Decise tuttavia di scavare più in profondità:
— Cosa vuoi dire, di preciso? Cosa ti ha fatto?
— Mi ha combinato un matrimonio. Capisci? Mi vuole obbligare a diventare moglie di un uomo che non ho nessuna intenzione di sposare. Per il bene del Popolo. Il mio parere non conta niente, per lei. 
— Non può essere, devi aver capito male… — rispose Malika — avrà inteso qualcosa di diverso, magari era solo un consiglio… ora non pensarci, sii felice di essere viva! Un sacco di gente ti vuole bene. Sei brillante, sei creativa, troverai la tua strada!
— È meglio morire, se devo vivere come vuole qualcun altro.
— Nessuno può costringerti a sposarti. Saremo una colonia persa nello spazio, ma ci portiamo dietro le leggi del nostro paese, e la Ha’Oba non ti puòi imporre niente — poi si interruppe, le si illuminò il volto e, cambiando nuovamente intonazione, ora felice e impaziente, disse — Aspetta! Ti ho portato una cosa, ti piacerà!
Prese dal suo sacco un quadernino con una graziosa copertina fatta a mano, simile a quelli che si trovavano nei mercatini dell’artigianato sulla terra.
— L’ho fatto io. A volte, quando sono sola e i pensieri mi opprimono, provo a metterli sulla carta. Mi fa sentire meglio, mi alleggerisce l’anima di tutto il peso che porto dentro, e quando i pensieri sono scritti davanti a me, mi fanno molta meno paura. Un datapad non sarebbe la stessa cosa, c’è bisogno di vedere le cose diventare fisiche, per esorcizzarle.
— Posso tenerlo? È mio? — chiese la ragazza.
— Certo! — rispose Malika sorridendo e battendo le mani, felice che il suo dono fosse ben accolto — Nessuno ascolta le mie poesie, qui. Vengono considerate parole inutili, non come gli ordini di un militare o i pareri di un tecnico. Ma le persone come te, con una grande sensibilità e un forte conflitto interno, nelle parole possono trovare un grande conforto, e magari le tue parole un giorno potranno dare conforto agli altri!
Lilith sorrise per la prima volta da quando era stata riportata alla colonia. Guardò la bella copertina di cuoio, con incollata una foglia di un vecchio albero della Terra, essiccata e dipinta di blu. Ci passò sopra le dita della mano destra, fasciata e sofferente per il gelo patito. La aprì, lesse la dedica di Malika, e una lacrima le scese sul volto sorridente.
— Una lacrima su un sorriso! — disse Malika, con un tono stupito — Che bello, è un regalo raro! È come quando piove e c’è il sole… Sai, sulla terra esisteva un detto, in un’epoca lontana, che diceva che quando piove con il sole è un giorno speciale e si sposano le volpi…
Si morse la lingua subito dopo, rendendosi conto che parlare di matrimoni in quel caso era dannatamente fuori luogo. Ma Lilith non sembrava aver colto.

La tenda si aprì improvvisamente. Entrò Anaba.
— Hai già altre visite, vedo. — disse la donna.
— Buongiorno Ha’Oba — la salutò Malika.
La poetessa sentì Lilith stringerle forte la mano, e quando si voltò verso di lei vide i suoi grandi occhi azzurri sgranati, impauriti. Malika le accarezzò la mano, poi si alzò, avvicinandosi ad Anaba, e le disse:
— Mi permette di parlarle un secondo?
— Certamente. Lasciami solo un attimo da sola con Tallulah, poi verrò da te.
La poetessa si voltò verso la ragazza, la salutò brevemente e uscì. Quando Lilith e la matriarca furono rimaste sole, Anaba disse:
— Non avrei davvero mai voluto che tu arrivassi a fare una cosa così folle.
La ragazza attese, in silenzio.
— So benissimo — continuò la donna dopo qualche istante — che il tuo problema più grande è il senso di appartenenza. Ti manca, e questo ti crea dentro un vuoto incolmabile. Pensavo che la mia decisione sarebbe stata un rimedio. Che avrebbe potuto aiutarti a farti sentire a casa.
Gli occhi di Lilith si riempirono di nuovo di lacrime, e iniziò a parlare con voce roca:
— Il senso di appartenenza… — disse, scimmiottando il modo di parlare della Ha’Oba, lasciando poi per qualche secondo la frase in sospeso. 
— Il mio vero problema — continuò — è che tutti vogliono farmi appartenere a qualcosa o a qualcuno, e io non voglio. Voglio essere solo mia, e voglio essere lasciata stare.
Anaba si abbassò, inginocchiandosi accanto alla branda, e disse, con un tono più affettuoso, più materno di quello tenuto fino a quel momento:
— Figlia. Piccola figlia. Figlia fragile. Le nostre origini sono l’unica cosa che non ti abbandonerà mai, nemmeno quando tu volterai loro le spalle. E io sono qui, per tutti quelli che hanno le nostre origini.
Poi si alzò, e dopo averle lasciato sulla branda un piccolo acchiappasogni con le corde fatte di luce, consacrato agli spiriti, uscì dalla stanza.

Mentre rigirava l’acchiappasogni tra le mani, a Lilith crebbe un groppo in gola. Un groppo che faceva male, che non la faceva respirare. Ricordò quella volta in cui sua madre le aveva donato un oggetto quasi identico, per il suo diciassettesimo compleanno. Lei avrebbe voluto tutt’altro che uno stupido ninnolo tradizionale. Un padcom nuovo, un astroglide. Non aveva dato alcun peso a quell’affare, e l’aveva perso quello stesso giorno. Poco tempo dopo sua madre era scomparsa, durante i primi giorni della Guerra, mentre era in viaggio in America. E lei aveva perso il suo ultimo regalo. 

«Cronache della Colonia» – 1

0. Prologo

Nel vertice del 6 febbraio 2100, alcuni tra gli stati non coinvolti nella Guerra concordarono, con l’atto denominato “Destinazione Stelle”, di utilizzare cooperativamente i loro varchi allo spazioporto lunare per lanciare verso lo spazio profondo alcune astronavi sperimentali. Un numero ad oggi non precisato di navi, dotate di motori Harrington-Xin e cariche di umani in stato di ibernazione controllata, abbandonò il sistema solare, portando con sé tutto il necessario alla creazione e al sostentamento iniziale di una serie di colonie. Al fine di  massimizzare la speranza di sopravvivenza dell’umanità, vennero scelte decine di diverse destinazioni. 

Una di queste navi, la CR-26100, un lungo cilindro bianco e rosso di proprietà della Canadian Railspace, partì verso la sua destinazione a velocità relativistiche. Superò senza problemi una regione resa inabitabile dalla presenza di una magnetar e denominata “bastioni di Tannhäuser” in onore dell’antico film Blade Runner, e continuò il suo silenzioso viaggio in direzione del pianeta QHR-J8.

Nel giorno di Sol-04092159, ovvero una sessantina d’anni dopo la partenza, secondo la datazione terrestre, un’avaria costrinse i sistemi di bordo a dichiarare decaduta la missione, a scartare la possibilità di mantenere la nave congelata nello spazio, con attivi solo i sistemi vitali minimi per mantenere in vita i passeggeri, e infine a valutare possibili scelte secondarie. I sistemi automatici rianimarono con una procedura accelerata i 216 abitanti. Poi aggiornarono i responsabili della guida manuale sopravvissuti al risveglio e, con il loro consenso, dirottarono la nave, con speranze di successo largamente inferiori all’1%, verso il quarto pianeta orbitante intorno a una piccola stella gialla-arancione. 

L’atterraggio, inaspettatamente, riuscì. Cinquantadue abitanti morirono a seguito del processo di risveglio, altri ventiquattro nell’atterraggio. Infine, una decina morì nei primi due giorni sul pianeta, a seguito del rapido deterioramento degli organi interni noto come sindrome di Eisermann-CB493µ, teorizzata da un medico tedesco a da un’intelligenza artificiale. Solo centotrenta, quindi, superarono la prima settimana dal momento della rilevazione dell’avaria e, tra questi, svariati riportarono danni minori.

Il pianeta orbitava in un tempo equivalente a poco più di 340 sol, mostrando al suo piccolo sole sempre la stessa faccia. Un emisfero (denominato “il Giorno”) era perennemente illuminato e faceva registrare temperature che potevano raggiungere svariate centinaia di gradi. L’altro lato (“la Notte”) era perennemente nelle tenebre, ricoperto dai ghiacci, con una temperatura che poteva finire anche a 210 gradi sotto zero. 

Solo “l’Anello” – una fascia spessa poche decine di km e immersa nella luce rossastra di un perenne tramonto – era abitabile e ricoperto da fitte foreste, tenute in vita da numerose sorgive e rigagnoli che dalle ultime propaggini delle montagne ghiacciate della Notte scendevano, per perdersi ed evaporare nel Giorno. Nell’Anello, non lontano dal luogo di atterraggio della CR-26100, avvenuto sulla zona al confine con la Notte, i centotrenta sopravvissuti fondarono la loro colonia. Tra di loro, in larga parte di origine canadese, figuravano anche una trentina di membri di un’etnia nativa che chiamava se stessa il Popolo, ed erano stati selezionati per partecipare alla missione nel tentativo di mantenere in vita un aplotipo unico al mondo: avrebbero portato in dote al DNA della nuova umanità una rarissima combinazione di geni in grado di interferire con problemi legati al viaggio nello spazio e ai gas atmosferici presenti sulla destinazione originariamente selezionata per la nave. Due situazioni divenute sostanzialmente impossibili – e la conservazione dell’aplotipo inutile – col cambio di destinazione e l’impossibilità di viaggiare nuovamente nello spazio per chissà quante migliaia di anni.

***

I. Esplorazione

Benché registrata con il nome di battesimo tradizionale, Tallulah, la giovane che avanzava a fatica nella foresta preferiva essere chiamata Lilith. Una turbolenta storia familiare l’aveva spinta a rinnegare le sue origini, nonostante proprio grazie a quelle origini fosse riuscita a imbarcarsi. 

Camminava facendosi largo con un machete tra gli alberi indaco, gli strani fusti fibrosi e spinosi con grandi squame pendule simili a foglie di colore viola-bluastro. Si stava avvicinando al limitare tra l’Anello e la Notte, e la temperatura stava scendendo bruscamente. Il sudore ghiacciava immediatamente, formando dei piccoli cristalli di ghiaccio sulle sue ciglia. Si passò una mano sugli occhi, infastidita, per poi grattarsi la tempia destra in risposta alla puntura di uno dei molesti semi di indaco portati dal vento. Infine proseguì fin sulla sommità di una piccola altura. Davanti ai suoi occhi si mostrò una vasta piana nella quale la vegetazione lasciava spazio a una desolata landa ghiacciata e oscura. Alle sue spalle la luce eternamente rossastra del tramonto eterno di quel mondo.

Rimase in silenzio per un po’, con lo sguardo fisso in quel vuoto senza fine. Le sembrava lo specchio del vuoto che sentiva dentro. Si sentiva smarrita, fuggita da un pianeta con dodici miliardi di abitanti tra i quali si sentiva sola, e finita dove ce n’erano solo centotrenta e non aveva mai la possibilità di esserlo veramente. Assorbita dai compiti che le venivano affidati, in una colonia che le sembrava, un minuto dopo l’altro, sempre più diversa da quello che aveva sognato e desiderato. Senza più speranza di una via di fuga. 

Il colore sempre uguale della luce e la direzione immutabile delle ombre rendevano impossibile capire quale ora fosse del giorno, ed era difficile, per i terrestri, continuare a mantenere le loro abitudini. Inoltre tutti i colori all’aperto risultavano alterati, tra il rosa e il violaceo. Gli occhi azzurri di Lilith sembravano lilla. La sua maglietta verde militare appariva bruna, i colori del pattern di tarantole tatuate sul suo braccio destro irriconoscibili. Avanzò sospirando, trascinando i suoi anfibi slacciati. 

Si voltò a guardare una donna che avanzava verso di lei dal lato destro della collina. Era un po’ avanti negli anni ma ancora in perfetta forma, con i capelli castani raccolti in un’elaborata acconciatura tradizionale fatta di trecce annodate una con l’altra. Lilith riconobbe immediatamente colei che era considerata la matriarca del Popolo. Il suo vero nome era Anaba, ma tutti la chiamavano con il suo titolo onorifico, Ha’Oba, Grande Madre.
— Anaba… — l’apostrofò Lilith, usando volutamente il suo nome di battesimo e non il titolo per rimarcare il fatto di non sentirsi parte del Popolo. Poi proseguì, usando l’inglese, la lingua franca della colonia:
— Mi hanno detto di venire qui perché mi volevi parlare. Non ho tempo, Anaba. Diana mi ha dato un elenco di campioni minerali e vegetali da trovare per i suoi esperimenti. Voglio finire prima che venga servita la cena, se sbrigherò il compito alla svelta forse il maggiore Smith mi darà la possibilità di provare i fucili a pressione molecolare.
La donna avanzò. Al contrario della maggior parte degli abitanti della colonia, che avevano una dotazione di abiti da esploratore standard, indossava una giacchetta di morbido cuoio orlato di frange, con perle di fiume legate al colletto, e dei pantaloni in stoffa colorata, con decorazioni a motivi geometrici. Ai polsi aveva numerosi bracciali di canapa e cotone, colorati a tinte calde. Portava al collo una collana di piume di uccelli rari della terra, alternate a figurine di legno intagliate dai suoi antenati. I suoi occhi scuri potevano apparire dolci e materni. Ma quando li stringeva a fessura diventavano dei coltelli che penetravano le sicurezze dell’interlocutore più agguerrito e mettevano a nudo la sua anima.
Anaba posò lo sguardo sulla sottile ma determinata figura della ragazza: considerò che era davvero graziosa. Aveva dei bei lineamenti. Benché si sarebbero potuti definire moderni, richiamavano le caratteristiche tipiche del suo popolo. Gli zigomi alti, gli occhi grandi. Avrebbe potuto essere sostanzialmente l’archetipo della sua gente, con in più il tocco esotico degli occhi chiari. E, proprio come la sua gente, non era mai doma. Se solo non avesse avuto quell’inspiegabile odio verso le sue origini, se non avesse deturpato il suo braccio con quegli stupidi disegni infantili. Se non si fosse conciata in quel modo assurdo i capelli, rasata su una tempia e con un lungo codino che raccoglieva tutta la chioma sul lato opposto.
— Sii paziente, Tallulah. — disse la donna nella sua lingua nativa e usando il nome di battesimo della ragazza — La pazienza è una virtù della nostra gente. Per raccogliere sassi non c’è bisogno di una grande donna. E nemmeno per sparare. Tu dovresti dedicarti solo a ciò che ti renderà una grande donna, amata e stimata dalla tua gente, onorata dagli spiriti. 
Lilith alzò gli occhi al cielo, spazientita. Non rispose, per evitare di infilarsi in una discussione che non aveva voglia di affrontare e che le avrebbe rubato ancora più tempo.
— Sai perché ti ho fatta venire qui? — continuò Anaba.
— Non ne ho idea — rispose Lilith, irritata, mantenendo l’uso dell’inglese. A un osservatore esterno sarebbe sembrato un dialogo piuttosto bizzarro, tra due persone che parlavano lingue completamente diverse eppure non avevano alcuna difficoltà a comprendersi.
— Dobbiamo allargare il perimetro del nostro Popolo — affermò la donna, che lasciò per qualche istante la frase in sospeso, per essere certa che fosse intesa, prima di continuare — Siamo pochi. Non serviamo più alla missione, visto che il nostro dono genetico è diventato inutile. Per vivere e affermarci non possiamo far altro che essere più forti. E dobbiamo anche tornare a parlare con i nostri spiriti. Siamo lontanissimi dalla Terra: non è facile. Tuttavia credo di aver trovato una soluzione. Shin, l’orientale, dice che prima di partire era un eremita e ha una sua via per entrare in contatto con l’universo. Dobbiamo farlo diventare uno di noi, ci può aiutare.
— Non mi interessa il Popolo e non credo negli spiriti. — rispose seccamente la ragazza — Ma di questo abbiamo già parlato e lo sai già. Perché mi hai chiamata, quindi?
— Tallulah… bada. Non te lo sto chiedendo. Te lo sto comunicando. Tu sposerai Shin, per farlo entrare nella nostra famiglia.
— Cosa?! — rispose Lilith, alzando il tono, incredula per l’assurdità dell’affermazione della Ha’Oba.
— È la cosa migliore.
— Cosa?! — urlò di nuovo la ragazza — Ma sei impazzita? Non ti permetterò di decidere per me! 
— L’ho già fatto. Il Popolo è la cosa più importante, Tallulah. Entrambe ne facciamo parte e siamo asservite al suo bene. Non puoi sottrarti al tuo compito.
— Il mio unico compito è raccogliere quei fottuti sassi — rispose Lilith, urlando, passando senza accorgersi dall’inglese alla sua lingua nativa, man mano che perdeva il controllo — e cercare di farmi una vita in questo schifo di mondo!
Si avvicinò via via ad Anaba, arrivando ad urlarle praticamente in faccia:
— Vecchia matta! Come puoi pensare di obbligarmi a sposare qualcuno? Ma in che accidenti di secolo credi di essere?
La donna rimase impassibile: 
— Nuovi mondi richiedono vecchi modi, per essere domati. La scelta è fatta. Ti lascio solo qualche giorno per pensarci e abituarti all’idea, poi inizieremo a prepararti per il matrimonio.
Lilith arretrò di un paio di passi. Gli occhi lampeggianti di odio andarono via via riempiendosi di lacrime, mentre prendeva il suo localizzatore, legato ad un cordino al collo, lo staccò e lo scagliò con rabbia a terra, ai piedi di Anaba, mandandolo in pezzi contro la nuda pietra. Poi corse via, verso la Notte.

#67. Maledizione.

“Non esiste una maledizione in Elfico,
Entese o nelle lingue dell’uomo
per una tale perfidia.”

[Barbalbero ne “Le due torri”]

L’attualità, la storia, la narrativa e la mitologia ci hanno consegnato ogni genere di orrore. Siamo talmente assuefatti all’orrore che possiamo pranzare tranquillamente sentendo e vedendo gente decapitata, torture, morti sezionati, delitti. E non ci viene nemmeno un po’ di nausea. Giusto un po’ quando compare un politico, ma è più un istinto pavloviano: sappiamo per esperienza che quello che dice si trasformerà in una nuova tassa, in una nuova legge in qualche modo repressiva, o comunque in qualcosa di nuovo che non ci darà piacere. Quindi ci sentiamo a disagio, e ci gira la testa.

Ma stavolta non ho alcuna intenzione di occuparmi di quei cicciobelli scadenti che guidano il nostro paese. No.

Se sono tornato a scrivere sul blog è perché mi sono sentito come Barbalbero ne “Le due torri”. Ho visto lo scempio delle antichità assire nelle immagini di questi giorni. E l’orrore che ho provato vedendo quelle opere perse per sempre mi ha sopraffatto. Non sono riuscito a esprimere tutta la rabbia che ho dentro, ho avvertito distintamente la limitatezza dell’italiano, dell’inglese, dell’elfico e dell’antico entese di fronte a quegli atti.

Non è andata in scena la rottura iconoclasta della rivoluzione, che vuole cambiare il mondo e lo fa col gesto violento della distruzione del passato per aprirsi al futuro. No. È piuttosto un odio che viene dal passato contro tutto ciò che è più antico, più moderno, contemporaneo, futuro, altrove, altroquando, altrocazzo. È il non plus ultra dell’autoaffermazione attraverso l’autoannientamento: io non conto nulla ma conto solo io. Il principio della creazione di una singolarità superiore che io credo e quindi creo e in nome della quale mi distruggo e distruggo il mondo. È il paradosso dell’ignoranza che si crede sapienza, della violenza che si crede pace, della menzogna che si crede verità. E distrugge tutto ciò che dimostra che è, appunto, ignoranza, violenza, menzogna.

Barbalbero non trova, in quella scena, di fronte allo scempio portato in essere da Saruman, nulla da dire. Urla, chiama i suoi, parte in guerra distruggendo forsennatamente. Ho provato lo stesso tipo di sensazione: non ho trovato nulla di sensato da dire, ho urlato, ho invocato gli dei, gli uomini, le civiltà a ribellarsi contro questi gesti. Ho provato sete di vendetta contro quelle facce di cazzo (non le percepivo come persone, non desideravo capire alcunché) che spaccavano con martelli pneumatici, mazze, corde. Ho provato persino orrore di me stesso, perché quell’orrore vi faceva desiderare nuovo orrore.

Ora, più lucido, mi sono calmato.
Non urlo, per dire.
Ma continua a interessarmi poco o punto capire. Per tutti esiste un limite oltre il quale l’intelletto decide di lasciar perdere. Oltre il quale il cervello umano e quello mammifero si rendono conto che se abbiamo ancora un cervello da rettile, in fondo, un motivo ci deve pur essere. E mi ostino a dire che non si può permettere che quell’orrore continui.

PS: grazie a Ishtar, ma soprattutto a Koldewey (gli sia tributato onore), la porta di Babilonia è al sicuro a Berlino.

Navigazione articolo